Omelia (28-10-2012)
Autori vari
Commento su Ger 31,7-9; Eb 5,1-6; Marco 10,46-52

Prima lettura - Geremia 31,7-9
Nel VII secolo a.C. il regno di Giuda corre verso la catastrofe. Il profeta Geremia condanna la decadenza e minaccia sventure. Così dice il Signore: " se non mi ascolterete e non ascolterete le parole dei profeti, miei servi, io ridurrò questo tempio come quello di Silo e farò di questa città una maledizione per tutti i popoli della terra" . Eppure ci fu un momento della sua vita in cui si sciolse in previsioni incoraggianti e pronunciò oracoli lieti (cc. 30-33, detti dai biblisti Libro della consolazione). Fu quando, nel 622, il re Giosia intraprese una riforma religiosa e morale e tentò la riconquista della Samaria. Geremia vede in questo sussulto di fedeltà a Dio - che per altro sarà solo momentaneo - l'annuncio della salvezza che Dio porterà un giorno al suo popolo intero.
In quel giorno anche i membri del regno d'Israele, da tempo spazzati via dal turbine dell'Assiria, ritroveranno il loro posto in seno al popolo di Dio. Sarà, questo, un tempo di gioia, perché Israele si sentirà dinanzi a Dio la prima delle nazioni. Il Signore ricondurrà tutti nella terra promessa ai padri: anche il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla.
Impossibile dubitare per colui che ha riconosciuto Dio come un padre amoroso per il suo figlio.
"Io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito". Israele (colui che lotta con Dio) è il nome dato a Giacobbe durante il suo ritorno dalla Mesopotamia e qui la parola Israele significa tutti i discendenti di Giacobbe-Israele. Èfraim è il secondo figlio di Giuseppe e quindi è nipote; in più la tribù di Èfraim è la più piccola di tutte le tribù. Ma l'amore di Dio abbraccia anche lui: anzi, lo abbraccia con predilezione: Èfraim è il mio primogenito!
Le parole consolanti del profeta vengono riproposte oggi per ricordare che la storia di questi esiliati è la nostra storia. Chi si allontana dal Signore fa l'esperienza del pianto, ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e disseminato di difficoltà, è ricco di soddisfazioni che Dio promette di farci incontrare, come tante sorgenti di acqua nel deserto, e la strada sarà dritta e senza inciampi.
Ora ti vogliamo pregare, Signore,
per tutti i deportati della terra,
per tutti gli esiliati dai loro paesi,
per la gente di ogni colore,
per i poveri figli della Notte
sradicati dalla loro Africa,
così soli e smarriti in queste città di bianchi ...
e poi per il "piccolo resto" di fedeli:
che continuino a credere, Signore!
Amen.
(P. David M. Turoldo)


Seconda lettura - Ebrei 5,1-6
Ogni sommo sacerdote - ci dice la seconda lettura, continuando la proposta antologica della lettera agli Ebrei - scelto fra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio. Egli non è al di sopra della comune situazione: peccatore fra i peccatori, rivestito di debolezza - per cui è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore - deve offrire anche per se stesso sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.
C'è un solo vero sacerdote che riunisce nella sua persona la debolezza dell'uomo e la potenza rinnovatrice dell'Altissimo: Gesù Cristo. Egli non si è preso da se stesso la dignità di sommo sacerdote dell'umanità, ma l'ha ricevuta dal Padre. Infatti Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito (Gv 3,16). Egli è Colui che Dio ha mandato. Il Padre ama il Figlio (Gv 3,34-35) e continuamente gli dice: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Ma insieme gli dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek. Egli, misterioso nella sua origine e nel tipo di sacrificio come Melchisedek (Gen 14,17-24), non ha peccato ed offre se stesso in sacrificio per i peccati di molti. Perciò - come abbiamo ascoltato Domenica - "non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze, dal momento che è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno" (Eb 4,15-16).
Accostiamoci con fiducia, perché sono per noi le parole di Dio, scritte dal profeta Isaia: Io sono un padre per il mio popolo e tu - tu che ascolti, tu che soffri, tu che ami, tu che preghi - tu, sei mio figlio prediletto!

Vangelo - Marco 10,46-52
L'episodio del mendicante cieco all'uscita da Gerico, così vivacemente descritto da Marco, è come percorso da un bisogno e un desiderio unico: poter vedere. Ma cos'è più importante vedere o udire? Istintivamente sentiamo più compassione davanti ai ciechi che ai sordi. Tanto gli occhi ci sembrano essenziali per la vita.
D'altra parte, la parola"vedere" è spesso usata nel doppio senso, fisico e morale, in conseguenza della "luce" che può essere esteriore e interiore. Dunque, il racconto ci riguarda. Il racconto può essere una metafora della vita. Di tanti di noi.
C'era molta folla. Bartimeo sente pronunciare il nome di Gesù o anche domanda alla gente chi c'è con tutte quelle persone, e, udito che c'era Gesù Nazareno, comincia a gridare: "Figlio di David, Gesù, abbia pietà di me!". Con quel titolo, figlio di David (in tutti i tre sinottici: Mt 20,30; Lc 18,38), il cieco certamente intende un profeta o un taumaturgo, con in più questo: che Gesù, per via del padre putativo Giuseppe, era realmente della tribù di Giuda e della stirpe di David re (Mt 1,1-16).
Evidentemente, chi ha scritto il Vangelo e chi lo ascolta, arricchisce il titolo del valore messianico.
La gente chiacchiera di Gesù, Bartimeo lo chiama. Molti sgridano questo mendicante per farlo tacere e lui grida ancora più forte. Esce allo scoperto e col suo grido richiama l'attenzione di Gesù.
Qualche volta c'è bisogno di tirarsi fuori dalla folla e superare parole o atteggiamenti che scoraggiano la fede. Qualche volta c'è bisogno di gridare la nostra fiducia nonostante tutto, perché Gesù si fermi dinanzi al nostro bisogno. Il grido è un'invocazione di tutto il nostro essere verso Colui che può farci vedere e camminare.
E Gesù si ferma e dice: "Chiamatelo!". Noi, uomini di Chiesa, dovremmo essere portatori e interpreti del comando di Gesù: Chiamatelo! Chiamateli tutti! . Invece, siamo pronti e preparati, sì, ad accogliere chi viene, ma di fronte a molti, più che di trasmettere l'invito, sembriamo preoccupati di creare barriere protettive, controllare i documenti, fissare le modalità dell'incontro, stabilire i momenti e le precedenze. Il grido travolge le domande "rituali", per le quali siamo sufficientemente preparati, e fa saltare le risposte prefabbricate. Aiutaci, Signore, a comprendere il grido, anche il grido silenzioso, che sale dal cuore di tante creature provate dalla vita.
"Coraggio! Àlzati, ti chiama!". Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Quel mantello che copre e nasconde e che Bartimeo getta via, non può essere il simbolo di quanto avvolge la nostra vita, coprendo tante realtà che impediscono la fedeltà al Vangelo? Retaggi familiari, abitudini inveterate, ignoranza, disattenzione, superficialità, paure, eccetera. Dunque, come Bartimeo, gettare via il mantello delle protezioni umane, delle sottomissioni all'ambiente e delle ricerche egoistiche, per stare in piedi e liberi come discepoli di Gesù e figli del Padre che è nei cieli. Nella liturgia, oggi, risuona per ognuno di noi la parola della Chiesa: Coraggio! Àlzati, ti chiama!
La domanda di Gesù, quasi scontata per il cieco Bartimeo, è importantissima per noi: "Cosa vuoi che io ti faccia?". Può darsi spesso che noi assomigliamo a Giacomo e Giovanni - ricordi Domenica scorsa? - che chiedono a Gesù un posto di gloria: "sedere uno alla destra e uno alla sinistra" del Messia vittorioso e trionfatore. Corriamo tutti il rischio di guardare la nostra vita e la storia con il paraocchi e quindi accorgerci solo delle cose immediate, di quelle che ci riguardano personalmente, e forse solo dei bisogni e necessità materiali.
La risposta del cieco è immediata: "Rabbuni, che io riabbia la vista!". E Bartimeo non solo riacquista la vista fisica, ma anche la vista interiore e spirituale e "ritrovare la fede è più che ritrovare la vista" - come è scritto nel monumento che raffigura un cieco a Lourdes, vicino alla basilica. Bartimeo diventò discepolo, se Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato" e lui, subito, riacquistata la vista, prese a seguirlo per la strada.
Anche noi abbiamo bisogno di questo incontro con Gesù, perché il processo di liberazione non è mai finito: i mantelli non finiremo mai di buttarli via! Senza la fede non balzi in piedi e non vai da Gesù.
Con la fede ti liberi, lasciando che il passato sia passato, consegnando a Cristo i tuoi limiti e le tue debolezze, e ti metti a seguirlo per la strada: non chissà mai quale strada, ma la strada concreta e attuale della tua vita, guidando i tuoi passi sulle orme che Gesù ha lasciato per tutti.

Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa' che amiamo ciò che comandi.
O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati,
che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto a compassionevole
verso coloro che gemono nell'afflizione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera:
fa' che tutti gli uomini riconoscano in Lui la tenerezza del tuo amore di Padre
e si mettano in cammino verso di Te.


La storia degli Ebrei esiliati è la nostra storia. Non è forse vero che tutte le volte che ci siamo allontanati dal Signore, siamo rimasti delusi e abbiamo fatto l'esperienza dell'insoddisfazione e della mancanza di pace interiore?
Ritornare sulla strada buona, che è quella della fedeltà alla Parola di Dio e dell'amicizia con Gesù, ci permetterà di fare un'esperienza meravigliosa: il Signore cambia la valle del pianto in un cammino che, pur faticoso, trabocca di gioia.

Accostiamoci dunque con fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno" (Ebr 4,15-16).
Accostiamoci con fiducia, perché sono per noi le parole di Dio, scritte dal profeta Isaia: Io sono un padre per il mio popolo e tu - tu che ascolti, tu che soffri, tu che ami, tu che preghi - tu, sei mio figlio prediletto!
Ma questa certezza non ti dà le vertigini?

Il mendicante cieco all'uscita da Gerico ci rappresenta tutti. Tutti siamo un po' ciechi, non riusciamo a veder bene le cose dello spirito. Oh, se potessimo vedere quanto riguarda la nostra vita e le vicende della storia con gli occhi della fede! Col cieco di Gerico ripeto e grido: "Rabbunì, che io veda di nuovo".
Quella parola "di nuovo" ci fa capire che quell'uomo non era cieco dalla nascita, era diventato cieco.
Può darsi che anche qualcuno di noi abbia perduto la fede o il fervore o l'impegno nelle opere di bene e ci sia perciò bisogno di ritornare alla condizione o al fervore di prima.
È questa la tua situazione?

Non può darsi che il Signore Gesù dica anche a te come ai discepoli che gli erano vicini: "Chiamatelo!"?
In certi casi prendere l'iniziativa è un atto squisito di carità: prevenire, creare l'occasione, provocare l'incontro, muoversi per primi sottolinea la gratuità dell'amore.
È forte il gesto di Bartimeo che gettato via il suo mantello balza in piedi. Può darsi che, per alzarti in piedi e seguire Gesù come discepolo, anche tu abbia bisogno di gettare via il mantello di protezioni umane, di sottomissione all'ambiente, di rassegnazione a certe situazioni. C'è qualcosa di cui ti devi liberare per essere veramente libero?

Il cieco di Gerico, riacquistata la vista, subito prese a seguirlo per la strada. I doni di luce e di gioia che il Signore concede alla tua vita ti spingono a diventare discepolo con maggiore prontezza e fedeltà?
E perché non sottolineare che la strada sulla quale devi muoverti con fede è, nel primo momento, proprio quella dove tu hai i piedi! È lì che il Signore ti aspetta, magari per farti scoprire una strada che lui ha già preparato per te. Nota bene il subito: non rimandare a domani quello che puoi fare oggi!

Silvano Card. Piovanelli
Arcivescovo Emerito di Firenze