Omelia (04-11-2012) |
mons. Vincenzo Paglia |
Commento su Deuteronomio 6,2-6; Salmo 17; Ebrei 7,23-28; Marco 12,28-34 Introduzione Bisogna considerare lo scriba del passo del Vangelo di Marco con grande benevolenza. Spesso Gesù accusa gli scribi di interessarsi più ai giochi di parole che non ai veri mali dei loro fratelli. Ma nulla di tutto ciò in questo brano. Ecco un uomo che cerca di conoscere. È un uomo alla ricerca di Dio, un uomo che vuole sapere come potere raggiungere Dio con sicurezza. Questo significa la sua domanda su quale sia il comandamento più importante. Gesù gli risponde in modo relativamente prevedibile, ma che va all'essenziale. Da tutta la Legge, ricava il solo comandamento che dà lo spirito della Legge stessa. Questo comandamento è divenuto una preghiera (Dt 6,4-5) che bisogna avere sempre nel proprio cuore, nella propria mente, nelle proprie mani e nella propria casa. Gesù vi aggiunge la necessità di metterlo in pratica, mediante quell'amore per il prossimo che permette a ciascuno di verificare se ama davvero Dio (1Gv 4,20). Lo scriba allora, felice di essere riconfortato nella propria fede, si felicita con Gesù. Ecco l'uomo che si complimenta con Dio, l'uomo che è contento di ritrovarsi in accordo con Dio. Non è commovente questo vecchio saggio che si complimenta con il giovane Rabbì, senza nemmeno sospettare che è con Dio stesso che si complimenta? Gesù ne è commosso. Accoglie con gioia l'osservazione di quest'uomo che è un vero credente, senza risparmio (Gv 1,47). Allora, gli apre il regno. Gesù risponde alle sue lodi con un'osservazione che ciascuno di noi vorrebbe sentirsi fare. Conferma lo scriba nella sua fede e, dandogli una garanzia come non ce ne sono altre, lo rassicura che non si sta sbagliando. Omelia Il Vangelo di questa domenica ci porta nel tempio di Gerusalemme, ove Gesù ha già affrontato i sacerdoti, i farisei, gli erodiani e i sadducei. Interviene ora uno scriba, il quale si inserisce nel dibattito ma con animo diverso da coloro che lo hanno preceduto. Egli pone a Gesù una domanda vera, decisiva: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?". Da esso, in effetti, dipende tutta la vita, nella sua globalità e nel suo svolgersi quotidiano. Gesù, davanti ad una domanda come questa, non fa attendere la sua risposta. Cita anzitutto un passo del Deuteronomio da tutti conosciuto essendo la professione di fede che i pii israeliti recitano ogni giorno, mattina e sera: "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,4-5). E poi aggiunge: "Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi". Lo scriba, a differenza della gran parte dei colleghi presenti, concorda con Gesù e nel rispondere cita anche lui, quasi a dimostrare la continuità dell'insegnamento della Scrittura, un brano tratto dal primo libro di Samuele: "Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici" (Mc 12,32-33). È saggio e sincero questo scriba, tanto che Gesù gli rivolge un complimento che ognuno di noi gradirebbe: "Non sei lontano dal regno di Dio". Ma qual è il contenuto del consenso tra Gesù e il suo interlocutore? È il duplice comandamento dell'amore di Dio e del prossimo; due comandamenti, a tal punto uniti, da essere la stessa cosa. È questa unità che Gesù sottolinea. La prima comunità cristiana lo aveva ben compreso. L'apostolo Giovanni, quasi a commento del brano evangelico che abbiamo ascoltato, scrive: "Se uno dice: "Io amo Dio" e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello" (1 Gv 4,20-21). L'unione tra questi due comandamenti è un originale e chiarissimo insegnamento di Gesù, sebbene, come mostra la risposta dello scriba, già nell'Antico Testamento è presente sia l'amore per l'unico Dio che quello per il prossimo. Gli israeliti, oltre che ad amare Dio sopra ogni cosa, sono altresì chiamati ad amare tutti i membri del popolo, particolarmente i più deboli, i piccoli, gli orfani, le vedove e gli stranieri (furono stabilite anche delle apposite leggi perché tutto ciò fosse attuato). Ma in Gesù questi due amori trovano il loro compimento, la loro esaltazione sino ai limiti più alti. In lui si uniscono, si fondono, si identificano perché discendono dallo stesso Spirito. Gesù è colui che ama; è il compassionevole, il misericordioso, l'unico buono. È l'uomo che sa amare più di tutti e meglio di tutti. Gesù ama il Padre sopra ogni cosa. Nelle pagine evangeliche emerge il particolarissimo rapporto tra Gesù e il Padre; un rapporto di dipendenza totale. È la ragione della sua stessa vita. Gli apostoli sono ammaestrati dalla singolare confidenza e dal totale abbandono che egli riponeva nel Padre, sino a chiamarlo con il tenero appellativo di "papà" (Abbà). E quante volte lo hanno sentito dire che l'unico scopo della sua vita era fare la volontà di Dio: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 4,34)! Gesù è davvero l'esempio più alto di come si ama Dio sopra ogni cosa. Gesù ha amato con la stessa intensità anche gli uomini. Per questo "si è fatto carne". Nella Scrittura leggiamo che Gesù ha tanto amato gli uomini da lasciare il cielo (ossia la pienezza della vita, della felicità, dell'abbondanza, della pace e della consolazione) per stare in mezzo a noi. E nella sua esistenza c'è stato come un crescendo di amore e di passione per gli uomini, sino al sacrificio della sua stessa vita. Ma cosa vuol dire amare "come se stessi"? Bisogna, appunto, guardare Gesù per poterlo capire. Lui infatti sa indicarci qual è il vero amore per noi stessi. Non di rado l'ignoranza in tale campo è notevole. Talora si cerca una felicità che non è tale; un benessere che non scende nel profondo; una libertà ch'è sottomettersi ancor più supinamente alla schiavitù di questo mondo. Gesù sembra dire: se ti rinchiudi nel tuo egoismo, non ti ami; se sei ripiegato sui tuoi interessi, ti vuoi male, rovini la tua vita, ti rattristi; e così via. È quanto accadde a quell'uomo ricco che non volle lasciare le ricchezze per seguire Gesù. Il senso dell'amare gli altri come se stessi è ben spiegato da altre parole dette da Gesù: "Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà" (Mc 8,35); e ancora: "Si è più beati nel dare che nel ricevere!" (At 20,35). Gesù, che ha vissuto per primo e sino in fondo queste parole, suggerisce che la felicità sta nell'amare gli altri più di se stessi. È una parola alta ed ardua. Chi può metterla in pratica? Bisogna rispondere che nulla è impossibile a Dio. Ed in effetti questo tipo di amore non si apprende da soli o sui banchi della scuola degli uomini; al contrario, in questi luoghi si apprende, e fin da piccoli, ad amare soprattutto se stessi e i propri affari, contro gli altri. Il tipo di amore di cui parla Gesù si riceve dall'alto, è un dono di Dio; anzi è Dio stesso che viene ad abitare nel cuore degli uomini. La santa Liturgia della domenica è il momento privilegiato per ricevere il grande dono dell'amore. Per questo, nel giorno del Signore, con gioiosa riconoscenza, avviciniamoci all'altare. Anche noi, come quello scriba saggio, ci sentiremo ripetere: "Non sei lontano dal regno di Dio". |