Omelia (18-11-2012)
don Alberto Brignoli
Un seme di Cielo

Le letture di oggi appartengono a un genere letterario ben definito nella Sacra Scrittura, quello dei testi "apocalittici", che non necessariamente rimandano a cose terrificanti e angoscianti, e che invece hanno la preoccupazione di "rivelare" (questo il significato del termine "apocalisse") i disegni di Dio sull'uomo e sulla storia. Appare abbastanza scontato che questo tentativo di parlare della "rivelazione" si associa quasi sempre ad immagini particolari che in termini teologici conosciamo come "escatologiche". L'immaginazione, la fantasia e spesso pure le congetture dell'uomo di ogni epoca, ci portano ad interessarci molto di questi discorsi, o quanto meno a restarne incuriositi: a volte più incuriositi da questi discorsi "apocalittici" sulla fine del mondo che su altri discorsi inerenti il prosieguo di questo mondo, nel quale attualmente siamo chiamati a vivere. Ultimamente, poi, le congetture relative alla fine del mondo fissata in una data già ben determinata hanno riempito l'interesse dei curiosi, l'agitazione dei superstiziosi, le elucubrazioni degli astrologi e soprattutto le tasche dei gestori del marketing, dal momento che nessuno può negare che dietro queste teorie ci sia un incredibile business: se nessuno ha dubbi sul fatto che il mondo e l'umanità un giorno avranno fine, ci sono pure molte persone convinte che ciò che mai finirà è la voglia di fare soldi sfruttando la suggestionabilità degli altri.
Personalmente, mi piace molto la frase con cui termina il Vangelo di oggi, che parla dell'impossibilità di conoscere il giorno e l'ora della fine della storia: un'impossibilità che riguarda tutti, addirittura Gesù Cristo e gli angeli, e che risparmia solo il Padre, cui viene così attribuita l'assoluta signoria sul mondo e sulla storia. Se il Vangelo che abbiamo letto contiene elementi che fanno pensare all'imminenza della fine del mondo (...egli è vicino...non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga...), non dobbiamo dimenticare che esso è stato redatto nella sua forma finale intorno all'anno 70, che nella memoria d'Israele rimane vivo come l'anno della distruzione di Gerusalemme. Questo per dire che le letture che abbiamo letto appartengono a un genere letterario che è comunque figlio della sua storia, e come tali vanno prese.
Nessuna congettura, quindi, di fronte alla storia e a un mondo che, da quando è stato creato, è in continua evoluzione, per cui è irreversibilmente incamminato verso una conclusione. Ciò che invece a me pare importante rilevare e che può veramente rappresentare un elemento di soprannaturalità, è la luce che la Parola di Dio, e la vicenda di Gesù Cristo in modo particolare, getta sulla storia dell'umanità, conservando sì in essa tutta la sua caducità ma dandole pure una dimensione di eternità che permette di dare senso e continuità alle cose che l'uomo costruisce e realizza in questo mondo.
È quella dimensione della speranza che va oltre il limite delle cose finite, che permette di vedere il nostro impegno nel mondo sotto un'ottica diversa, quella della provvisorietà e della continua trasformazione in vista di un mondo futuro, che è ancora di là da venire e di cui in questo mondo solo possiamo cogliere le primizie. Quando si parla di "dimensione escatologica" della fede cristiana, si parla proprio di questo: di una fede che, sia pur incarnata perfettamente nella realtà della vita di ogni giorno, conserva inevitabilmente uno sguardo verso il futuro, verso l'eternità, che dà maggior senso alle cose che si vivono qui nella precarietà del quotidiano.
Che fede sarebbe, quella cristiana, senza la speranza in un mondo nuovo? Che senso avrebbe la nostra fede se non fosse aperta alla dimensione dell'eternità? Che senso avrebbe, dice Paolo, la nostra fede, senza la Resurrezione di Gesù Cristo dai morti? Anche qui, occorre fare una distinzione per non cadere nell'errore in cui un certo laicismo vorrebbe cadesse la religione cristiana e tutte quelle religioni che hanno una dimensione escatologica.
Lungo la storia, molte filosofie e scuole di pensiero hanno accusato la fede cristiana (ma non solo quella) di essere una fede "oppiacea", che offusca, che narcotizza le menti dei suoi adepti facendo credere loro che le sofferenze e le amarezze della vita di ogni giorno sono solo una cosa momentanea, passeggera, in attesa di una gioia senza fine con la quale saranno ripagati di tutti i sacrifici sopportati in questa vita. Una vita, quindi, che è inutile vivere con pienezza e intensità perché, tant'è, tutto passa e se ne va, per cui non ha alcun senso impegnarsi attivamente in un mondo destinato a perire, in attesa di un mondo di gioie e soddisfazioni nell'altra vita.
Ma la nostra fede, per quanto aperta ad una dimensione soprannaturale, non è una religione "onirica", "oppiacea", che addormenta l'uomo e gli fa odiare la vita, il mondo, la natura. Anzi, è una fede che, proprio perché apre a una dimensione che va ben al di là della materia, del limite e della morte, vuole dare un senso più profondo a ciò che si vive nell'esistenza quotidiana. La speranza di un mondo migliore, in cui regnerà la giustizia e l'amore tra gli uomini, non è solo l'attesa di qualcosa che verrà alla fine dei tempi, ma è qualcosa che cerchiamo di costruire giorno dopo giorno qui su questa terra dando una dimensione "assoluta" ai valori in cui si crede.
Sperare in cieli nuovi e terra nuova vuol dire far nuova la terra ogni giorno con comportamenti e atteggiamenti di giustizia, di pace, di amore, di solidarietà, che hanno dentro di sé un "germe di cielo", di qualcosa che va oltre l'umano. Vedere che tra un uomo e una donna non ci sono solo esempi di amori fragili che si rompono dopo pochi anni di convivenza, ma che ci sono amori che vanno testardi contro ogni difficoltà e addirittura oltre la morte, sono gesti terreni ma che hanno in sé una profonda dimensione di cielo, o se vogliamo, escatologica. Lottare ogni giorno perché le situazioni di crisi e di violenza che sembrano attanagliare la nostra società riescano a trasformarsi in gesti di solidarietà e rispetto reciproco è senz'altro segno della dimensione escatologica dell'esistenza. E di esempi come questi ce ne sono moltissimi, ogni giorno.
Il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi del cielo non lo fa solo alla fine della storia, lo fa ogni giorno. A volte lo fa nella maniera drammatica della passione e della croce, con la malattia, la sofferenza, il dolore, la morte che sono costantemente intorno a noi; a volte invece lo fa nella dimensione gloriosa della risurrezione, ogni volta che da apparenti situazioni di sofferenza e di morte siamo capaci di risollevare noi stessi e gli altri verso piccole o grandi vittorie che ci dicono che lottare per trasformare continuamente il mondo non è mai inutile.
Non ci spaventi, allora, il pensiero di un mondo che finirà, presto o tardi nessuno lo sa, se non Dio solo: ci stimoli invece il pensiero che tutte le cose che costruiamo con sofferenza e fatica nella vita di ogni giorno sono il segno che la nostra esistenza non è mai solo qualcosa di terreno che termina così come è iniziata, ma ha dentro di sé dei "semi di cielo" capaci di fare germogliare quotidianamente fiori e frutti di giustizia e di solidarietà; capaci, nel loro piccolo, di trasformare questa storia che spesso ci appare solo come un dramma.