Omelia (25-11-2012)
don Alberto Brignoli
Segno del Regno, senza coincidenze

Quando, l'11 dicembre del 1925, al termine dell'Anno Santo, Pio XI istituì la Solennità di Cristo Re dell'Universo, si trovava inserito in un contesto mondiale sul quale incombevano - in particolare sull'Europa - pericolose forme di totalitarismo politico: dal nazismo al comunismo, solo per citare i due blocchi contrapposti e maggiormente assolutizzanti, l'idea governativa che sembrava emergere in quel tempo era di una volontà di dominio assoluto.
Era evidente che questi modelli, alimentati poi anche da un'ondata di violenza che porterà allo scoppio del secondo conflitto mondiale, rappresentavano, agli occhi del Papa, una seria minaccia non solo nei confronti dell'umanità, ma anche della dimensione spirituale di un mondo, quello cristiano, che faceva fatica a riconoscersi nell'uno o nell'altro modello, e che soprattutto vedeva messa in questione la supremazia di Dio sul mondo e sulla storia, così come la fede cristiana insegnava. Ma la preoccupazione del Papa era pure quella che non si creasse una nuova, alternativa forma di offuscamento della suprema autorità di Cristo come Re dell'Universo; ovvero quella per cui la Chiesa, intendendosi come Regno di Dio, avesse la pretesa di esercitare il dominio sui popoli e sulle nazioni in virtù della sua diffusione universale e in virtù appunto di un'analoga autorità attribuita - questa sì, giustamente - al suo Signore.
"Ma il mio regno non è di questo mondo": sulla scorta delle parole di quel Re la cui potenza oggi celebriamo, credo allora (e l'enciclica da lui scritta a questo proposito lo dice pure in maniera abbastanza esplicita) che l'intenzione di Pio XI fosse di allontanare la fede dei credenti dal rischio di far coincidere religione e potere politico, Chiesa e Regno. Il rischio era di una duplice, pericolosa declinazione: quella di una vita religiosa soggetta alle decisioni e alle scelte del potere politico (che gli storici definiscono con il termine di "cesaropapismo") oppure quella contrapposta, conosciuta come "teocrazia", per cui è la religione che ha la pretesa di detenere il potere sia da un punto di vista spirituale che da un punto di vista temporale.
Se Cristo è Re, ma il suo Regno "non è regno di questo mondo", nessun modello politico che cerchi di conciliare i valori della fede con le leggi del potere può essere assunto dai cristiani come espressione del Regno di Dio. Che Cristo sia Re, è fuori di dubbio: è lui stesso che ce lo ha rivelato, durante l'interrogatorio calzante di un giudice politico, Pilato, che doveva per forza di cose trarre fuori dalle sue parole un capo d'accusa con movente politico per poterlo condannare a morte per tentativo di sovversione. Ma mentre Pilato utilizza come criterio la ragion di stato, che è poi lo stesso criterio utilizzato dai farisei invidiosi ("...è meglio che muoia un uomo solo che perisca tutto il popolo"), Gesù ha tutta un'altra serie di criteri per definire il proprio Regno.
E tra i criteri che Gesù offre a Pilato perché possa comprendere di che pasta sia fatto il suo Regno, ci mette anche quello della verità alla quale egli è venuto a dare testimonianza. Verità, responsabilità e soprattutto non-violenza sono i criteri che Gesù offre a Pilato e a ognuno di noi nel cercare di capire in che cosa consista il suo Regno.
Oggi mi piace - anche per connotare, terminandole, le riflessioni di quest'Anno Liturgico - pensare a questo concetto del Regno in chiave missionaria, cercando di applicarvi proprio questi tre criteri di verità, non-violenza e responsabilità.
Quando, come missionari, ci mettiamo a disposizione della nostra Chiesa di origine che ci invia a essere segno della presenza del Regno in altre culture, non possiamo esimerci dall'essere annunciatori della verità proclamata nel Vangelo, ma della quale siamo sempre e solo testimoni, servitori, annunciatori, appunto, e mai depositari. Voglio citare un bellissimo passaggio dell'Esortazione Apostolica "Ecclesia in Medio Oriente" recentemente promulgata da Benedetto XVI: "Sappiamo bene che la verità non esiste al di fuori di Dio come una cosa in sé. Sarebbe un idolo. La verità si può sviluppare soltanto nella relazione con l'altro che apre a Dio, il quale vuole esprimere la propria alterità attraverso e nei miei fratelli umani. Quindi non è opportuno affermare in maniera esclusiva: «Io possiedo la verità». La verità non è possesso di alcuno, ma è sempre un dono che ci chiama a un cammino di assimilazione sempre più profonda alla verità. La verità può essere conosciuta e vissuta solo nella libertà, perciò all'altro non possiamo imporre la verità; solo nell'incontro di amore la verità si dischiude."
Non c'è spazio, dunque, per l'intolleranza religiosa e per la violenza che da essa spesso scaturisce. Il Regno di Dio non è di questo mondo, per cui in esso la logica della violenza non ha senso. Nessuna logica violenta: né quella delle armi, né quella delle campagne denigratorie, né quella delle parole infamanti, né quella dei gossip, né quella della discriminazione razziale, né quella del consumismo esasperato, né quella dell'arrivismo, né tantomeno quella della verità assoluta in nome della fede.
Se dunque anche noi, come Pilato, ci chiediamo cosa sia la verità perché riteniamo di poterla racchiudere in una sorta di relativismo ("Ognuno è libero e sovrano di credere ciò che vuole") che poi porta all'arroccamento sulle proprie posizioni e quindi all'intolleranza religiosa, di certo non siamo testimoni di quella Parola di vita del cui annuncio tutti ci dobbiamo sentire responsabili.
Quando diciamo che tutti siamo missionari, non stiamo dicendo frasi-slogan della Giornata Missionaria Mondiale, o frasi-fatte per giustificare che oggi si può anche tralasciare di partire per altri paesi perché comunque tutti possiamo essere missionari qui nella nostra realtà. Quando parliamo di una missionarietà universale, che ci riguarda tutti, lo diciamo perché ci sentiamo e sappiamo bene di essere parte attiva del Regno di Dio, un Regno che - grazie a Dio - non coincide con la Chiesa, ma al quale, come Chiesa, siamo indissolubilmente uniti e del quale siamo chiamati a essere segno.
Senza la pretesa di insegnare o imporre agli altri la logica di una verità di cui spesso pensiamo erroneamente di avere l'esclusiva, ma con l'atteggiamento di servi dell'umanità, che è ciò che ha permesso alla Chiesa, sin dai primi secoli, di diffondersi in ogni parte del mondo. Salvo poi soccombere, a volte, alle logiche del potere che rischiano di distoglierla dalla sua dimensione di serva del Regno.
Certe logiche, le lasciamo ai potenti di questo mondo, che spesso sono capaci di nasconderle dietro a false lotte per la rivendicazione dell'identità religiosa di un popolo, cercando di tirare in torta anche la comunità dei credenti, la Chiesa, la quale corre sempre il rischio di lasciarsi "allettare" dal canto ammaliatore di sirene che le propongono un po' di potere temporale condiviso, a condizione di essere lasciate in pace mentre compiono i loro biechi propositi di supremazia.
Il nostro Regno, quello del nostro Re che oggi celebriamo, non è un Regno di questo mondo: ma vive in questo mondo per continuare profeticamente a proclamare - almeno lui! - la verità, la giustizia, la pace, e la solidarietà fra tutti gli uomini.