Omelia (25-11-2012)
don Marco Pozza
La differenza è tra maschile e femminile

Al maschile o al femminile: e sarà tutta un'altra cosa. Perché quel giorno, accampati all'ombra di una Bellezza Crocifissa, scopriremo che un conto sarà stato declinare l'avventura cristiana al genere femminile e tutt'altra cosa sarà stata viverla addossandole l'austerità e la virilità della forza maschile. Per chi l'avrà letta con i connotati di donna, questa racconterà la fine dell'avventura umana su questa terra: "grazie per la fiducia accordataci in questi anni". Per chi lei l'avrà cantata con accenti maschili, questa sarà la domenica che racconterà - finalmente e senza smagliatura alcuna - il fine della storia, ovverosia quell'atteso svelare di come la storia era all'inizio nell'immaginazione di Colui che le ha dato forma e bellezza. Parlare al maschile o al femminile non sarà una semplice disquisizione di quisquiglie grammaticali, ma varrà l'alfabeto che racconterà come l'uomo e la donna avranno interpretato la loro vita quaggiù, in quest'infinitesimale e angusto spazio chiamato terra degli uomini.
L'hanno declinata al femminile coloro che nella storia c'avranno trovato l'escamotage per giustificare l'angoscia e lo spavento, la diffidenza e la paura, la stanchezza e quell'inerzia tipica di chi ha vissuto con una cautela tale da accorgersi d'essere morto nuovo di zecca. Nelle folate di vento della Scrittura Sacra avranno trovato giustificazione e compagnia, il loro fiuto avrà permesso loro di riconoscersi e di fare comarella agli incroci dell'esistenza. Dal servo malvagio e infingardo della parabola dei talenti al giovane tristemente ricco ma rimasto senza nome passando per quella sterminata bolgia fastidiosa di falsi profeti, di uomini e donne vissuti senza infamia e senza gloria: il giorno finale dell'esistenza di costoro, in calce ad una vita di stenti e di fatiche, apparirà come la fine di un'avventura che ha avuto più i connotati malinconici delle nebbie d'autunno che i colori ferrigni e vibranti delle sere d'estate, i lineamenti di nobildonne accasatesi al potere piuttosto che l'umile riverenza delle lavandaie di Nazareth, il profumo aromatico delle spezie sacrificate agli dei invece della fragranza dei panettieri di Galilea. E sarà giorno di grande nostalgia per aver contemplato tardivamente che la vera Gloria abitava nello strazio di un Uomo Crocifisso che quaggiù ha sempre difeso ciò che era stupidamente negato e disprezzato dall'intelligenza di chi governava la storia.

Costoro, i ricusatori, quelli che dicono «no», rimangono segnati, bruciano anche ma consumando se stessi; diventano cinici e distruttivi; essi possiedono il fiuto per riconoscersi a vicenda e fanno lega. Non importa che escano ufficialmente dalla Chiesa o vi rimangano. Chi possiede una certa capacità di discernere gli spiriti li riconosce. (H. Urs von Balthasar, Punti fermi, Rusconi, Milano 1972, 329-332)

Come giorno atteso da millenni sarà questo per chi dell'esistenza quaggiù avrà sempre parlato con i connotati del genere maschile. Per costoro oggi la liturgia racconterà il fine della storia, ovvero s'accenderà luminoso il grande segreto che il Creatore aveva posto nel cuore della storia per farla battere di speranza quaggiù. E saranno volti affaticati e striati dal dolore, membra finite dall'attesa e doloranti di derisione, sguardi affaticatisi nel contemplare l'orizzonte e passi di donne incapaci di arrendersi sotto i colpi della delusione. Per costoro vivere sarà stata un'avventura che mai li ha annoiati, tutti tesi a sfidare limiti e imperfezioni, a ricerca l'essenziale nell'inessenziale, il silenzio della bellezza nelle urla dell'inferno, la vera gloria dentro le sporcizie di vicende fangose e vecchie come il mondo. Per giungere in capo ad una vita e contemplare il Volto radioso e affascinante di Colui che, strozzato come un malfattore di lunga data, ebbe il coraggio di riannodare quel vecchio concetto espresso in lingua natìa ai bordi di un lago popolato da tristi pescatori insonni: "Il mio Regno non è di quaggiù". Li presero per pazzi, diedero loro degli ubriachi, le loro voci vennero sgozzate nei patiboli e infilate con gli spaghi nelle sinagoghe. Di loro vivisezionarono le miserie e le debolezze, profanarono le gesta e derisero le urla: eppure essi non tacquero. Perché per loro la storia tendeva ad un fine, non alla fine. Per i primi e per i secondi l'esistenza sarà stata una questione puramente grammaticale: maschile o femminile?

I santi sono i veri realisti, tengono conto che l'uomo così com'è, non ha speranza, e non fuggono dal presente per rifugiarsi nel futuro. Essi sono i veri utopisti: malgrado tutto, si danno da fare e sperano contro la speranza. Sono cauti ma non calcolatori; vivono della prodigalità dell'amore eucaristico di Dio. I santi sono umili: vale a dire, la mediocrità della Chiesa non li scoraggia a solidarizzare definitivamente con essa; perché sanno bene che senza la Chiesa non troverebbero la strada che li porta a Dio. Essi non cercano di conquistarsi le grazie di Dio di propria iniziativa, scavalcando la Chiesa di Cristo. Combattono la mediocrità, non con la contestazione ma stimolando, contagiando, accendendo i migliori. Essi soffrono per 1a Chiesa, ma non diventano acidi, né si appartano imbronciati. E non creano conventicole accanto alle Chiesa, ma gettano il loro fuoco al centro. Se poi sono autentici, i santi non attirano l'attenzione su se stessi; essi non sono che un riflesso, mentre l'attenzione va diretta al signore del fuoco. (ibidem)

Di chi fu vera gloria ancora non è dato sapere. Rimane quel Volto Trafitto come ultima parola di un anno liturgico. Per non morire di disperazione.