Omelia (16-12-2012) |
Gaetano Salvati |
Commento su Luca 3,10-18 L'uomo è adatto per Dio, è strutturato per desiderarLo. Tale desiderio conduce la creatura ad inseguire la felicità, a trovare una pienezza di senso che realizzi le sue speranze, che risolva le inquietudine e le difficoltà dell'esistenza. Questo è il nostro esodo: il perenne cammino dell'umanità nella storia di tutti i giorni, teso fra la gioia precaria e il sentiero interrotto dalla sofferenza e dalla morte. Ma, il desiderio di essere di Dio non significa solamente correre dietro le illusioni. È, soprattutto, domandare a Lui il dono di incontrarLo. La creatura che invoca la verità, per una libera e misteriosa concessione di Dio (la fede), riesce a comprendere che ogni pellegrinaggio è la strada di avvicinamento del Signore all'uomo, perché questi possa tornare a Lui. Questo è il nuovo esodo, iniziato con l'incarnazione del Verbo. Egli, fatto storia per noi, è il compimento dell'attesa dell'umanità, il sollievo degli affaticati, la salvezza e la pace dei poveri; ancora, la speranza, divenuta certezza, di (ri)cominciare la strada verso la gloria eterna. La celebrazione del Natale, però, non è una ricorrenza, è il memoriale dell'incarnazione del Verbo, avvenimento storico che si fa evento di grazia per il credente. Infatti, come compimento della nostra attesa, il Natale richiede, ora, in questo istante, la nostra fedeltà al dono che viene fatto. Innanzittutto, si pone la necessità di partecipare ai sacramenti. L'eucaristia, in particolare, è il memoriale della Pasqua del Signore, la forza plasmatrice che ci unisce sempre più fra di noi (la Chiesa) e con Dio (la perseveranza). In secondo luogo, diviene irrinunciabile ascoltare umilmente la parola di Dio: i testi della liturgia della parola ci offrono gli elementi essenziali per vivere degnamente la felicità del Natale e per trasformare il desiderio in presenza di Dio in noi. Oggi, nella prima lettura, il profeta Sofonia invita Israele alla gioia (Sof 3,14), a non cedere alla tentazione di ritenere Dio lontano dalle calamità: il Signore è vicino ed esulta per noi (v.17). San Paolo, nella lettera ai Filippesi, mostra l'emblema della gioia autentica: l'amabilità (Fil 4,5). Un simile atteggiamento sembra sia proposto anche dal Battista. Le sue risposte a quanti gli chiedono: "che cosa dobbiamo fare?" (Lc 3,10), ci aiutano a trovare la via per evangelizzare la nostra vita e, allo stesso tempo, ci rivelano il nostro compito: siamo chiamati a divenire precursori di Cristo, testimoni di Colui che ci rialza dalle tenebre dell'errore e del peccato. Certamente, per divenire annunciatori del Salvatore è indispensabile mettere da parte la tristezza e dare spazio all'amore. Ma, come faremo ad amare tutte le persone che incontreremo? Giovanni dice che dobbiamo staccarci dall'egoismo, e considerare che non siamo noi ad amare per primi. Difatti, noi riusciamo ad amare perché Dio ci ama e, in questa gioiosa consapevolezza, siamo in grado di far dimorare l'Altro in noi. A questo punto, ritorna la domanda: "E noi che cosa dobbiamo fare?" (v.14), pensiero che nasconde la volontà di sentirsi realizzati. Si deve amare, cioè imitare la bontà di Dio, incarnato nell'avventura dell'uomo, per riuscire ad attuare il nostro desiderio d'incontro con Lui: incontro che si realizza nelle azioni verso le creature. Amen. |