Omelia (25-12-2012) |
padre Gian Franco Scarpitta |
La notte dell'amore e della vita Trascorrere la notte vuol dire vivere il buio e attendere il chiarore dell'alba. Il passaggio dall'oscurità notturna alla luce del giorno è sempre piacevole, perché avviene poco per volta, affascina l'occhio senza affaticarlo con immagini incantevoli progressive e favorisce che si osservi ammirati il chiarore dell'alba, con la luce crescente del sole, il diradarsi dell'oscurità e l'affievolirsi del bianco della luce lunare riflessa. Per chi svolge un lavoro notturno è piacevole raggiungere le prime luci dell'aurora dopo ore interminabili di insonnia. Trascorrere la notte a Betlemme, per Maria e Giuseppe doveva certamente aver comportato inizialmente turbamento, indecisione, sgomento, ma è logico pensare che tali sentimenti si siano attenuati al subentrare della gioia apportata dal Bambino divino che si trovavano a trastullare. Per i pastori intenti alla guardia delle loro greggi, quella notte doveva essere stata di sorpresa e di sgomento, tuttavia tramutatasi in gioia ed contentezza indicibili quando raggiungevano trafelati la mangiatoia, sollecitati dall'annuncio della visione angelica. Anche per noi questo passaggio dalle oscurità alla luce è motivo di letizia e di gioia, soprattutto perché è il riflesso esistenziale del passaggio dalle tenebre del male alla luce radiosa della nuova vita. La stessa di cui è stato apportatore il Signore Gesù Cristo, che dalle tenebre dell'errore ci ha rigenerati alla vita eterna: in questa notte osserviamo affascinati il mistero di Dio che ha scelto l'inimmaginabile perché noi passassimo dalla morte alla vita, realizzando in noi la fine di tutto ciò che è distruzione e oppressione, per esempio il peccato. Secondo le parole dell'apostolo Giovanni: "La vita si è fatta visibile e noi l'abbiamo veduta... Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (Gv 1, 2. 5). Nell'evento di Betlemme vediamo in definitiva il passaggio dall'oscurità del male al fulgore del bene di cui è capace l'amore di Dio fautore di vita eterna. Questa non si tocca con mano, eppure il Bambino di Betlemme l'ha resa visibile e indubbia con il suo giacere umile e povero nella mangiatoia dalla quale richiama pastori, magi, sapienti e illetterati. Chi è infatti questo Bambino? E' Dio che ha deciso di intervenire direttamente nella nostra vita per percorrerne tutte le tappe; è la pienezza della Rivelazione cioè dell'autocomunicazione di Dio con noi e del suo intrattenersi con noi come con amici. Il Bambino giacente è il Dio sempre regnante che non esercita il suo dominio se non con la dimostrazione dell'amore, unica aspettativa possibile con cui l'uomo possa essere convinto intorno alla propria miseria. Come suggerisce Von Balthasar, nell'evento di Betlemme il Tutto si mostra nel frammento, la Totalità entra nella parzialità e l'Eternità entra nel tempo per percorrerlo e per assumerlo fino in fondo. Tutto questo non è altro che la Vita che trionfa sulla morte. L'autore della vita, che sarà crocifisso ma risuscitato per il trionfo definitivo sul male e sulla morte, adesso si rende apportatore di vita nelle sembianze di un bambino indifeso; nella piccolezza e nella precarietà della grotta dimostra di superare l'egoismo e le brutture dell'uomo. Se il cinismo dell'uomo gli ha appena chiuso la porta dell'albergo, egli spalanca le porte dell'amore albergando tutti nella sua greppia, dove prefigura quella che sarà la sua promessa esaltante: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò" Il fascino della notte è quindi il fascino dell'amore che da la vita, per il quale ci sentiamo motivati e spronati sempre più a vivere che all'illusione passeggera di sopravvivere. Per il vivere di Dio con noi. |