Omelia (21-03-2004)
don Fulvio Bertellini
Così difficile essere figli?

Essere nati

Non conosciamo il momento della nostra nascita. Non abbiamo scelto noi di nascere. Non abbiamo scelto noi la nostra persona, il nostro corpo, l'epoca in cui vivere. Non abbiamo potuto neppure scegliere l'educazione da ricevere, almeno fino ad un certo punto della nostra vita. [Ci sono, a dire il vero, alcuni genitori che si vantano di "lasciare liberi" i loro bambini o ragazzi: e sono quelli che, se non si rovinano prima, ripetono esattamente pari pari tutto il modo di essere dei genitori. Al bambino non serve una finta libertà (dovrà conquistarsela da adulto!), ma, come ha fame di latte, così ha fame di conoscenze, di educazione, di modelli...]. Il fatto di essere nati segna irrimediabilmente la nostra vita. Non abbiamo un'origine assoluta, ma la riceviamo dal di fuori.

Essere figli

Al cuore del dramma della parabola raccontata da Gesù sta il dramma fondamentale dell'esistenza umana. Che ruota attorno alla sua identità fondamentale: essere figlio, e non poter essere padrone assoluto.Il problema è già acuto a livello umano, e si complica se si trasferisce sul piano religioso: ci è stato insegnato che Dio è Padre, e che tutti noi siamo suoi figli. Essere cristiani significa allora credere a un Padre-padrone, non poter essere mai completamente autonomi, completamente liberi, completamente uomini?

La fuga dalla paternità

Il primo figlio può essere visto come l'immagine dell'uomo occidentale moderno. Completamente indipendente da qualunque figura superiore a lui. Si fa consegnare il patrimonio, e parte per la sua avventura, il suo viaggio per un paese lontano. E' l'illusione di potersi affrancare dalla propria origine, di poter dimenticare la propria nascita, di potersi realizzare senza legami, senza condizionamenti, attraverso il godimento dei beni. Ma la vita trascorsa nel gaudio e nella spensieratezza si scontra inevitabilmente contro il suo limite. Il giovane gaudente si ritrova schiavo del padrone dei porci. Chi pretende di essere libero, in senso assoluto, trova sempre qualcuno più libero di lui...

Lo sguardo astioso

Nelle nostre riunioni pastorali (tra preti, tra animatori, nei consigli pastorali parrocchiali) e anche in tanti discorsi occasionali, ricorre la critica al "mondo di oggi": a questa sfrenata ricerca di autonomia e di indipendenza, alla feroce determinazione a ricercare da sé la propria realizzazione, senza legarsi ad altri, senza regole, senza necessità di una coerenza. Tutto quello insomma che abbiamo visto incarnato nel primo figlio della parabola (che da questo punto di vista sembra essere di un'attualità sorprendente), con una piccola differenza: noi ci aspetteremmo di veder maggiormente rotolare tra i porci chi si allontana da Dio, dalle sue leggi, o dalle regole della sua Chiesa - e invece le possibilità di indipendenza, di autonomia, di godimento individualistico sembrano aumentare indefinitamente. Ma questo nostro sguardo astioso è ancora uno sguardo cristiano? Animato dall'amore di Dio?

La paternità subìta

Ci consideriamo figli di Dio perché non facciamo nulla di male. Perché non facciamo grossi peccati. Perché, tranne qualche volta, siamo sempre a Messa, e perché spesso partecipiamo alle attività della parrocchia. Ci consideriamo figli di Dio perché non siamo come gli altri... ma sentiamo sulle nostre spalle il peso di essere "buoni cristiani", come un dovere pesante da assolvere. E siamo tristi, e incapaci di far festa. Incapaci di rallegrarci col Padre. Incapaci di abbracciare il fratello che ritorna. Ci consideriamo figli, ma abbiamo ancora un animo da servi: è il messaggio che Gesù lancia attraverso la parabola,

Il Figlio Unigenito

Gesù ci mostra il vero modo di essere figli. Che non è essere schiavi di un Padre-Padrone, da cui fuggire o a cui sottostare. Gesù, in quanto Figlio, sa di ricevere tutto dal Padre. E ci mostra come una vita ricevuta, può essere vista come dono, non come condanna o come sfida. Gesù, in quanto Figlio, è obbediente al Padre. E ci mostra come la libertà può prendere la forma dell'obbedienza, della riconoscenza ad un amore ricevuto. Gesù, in quanto Figlio, dimostra di essere libero: libero da ogni potere esterno (nessuno gli può imporre nulla - neppure con la forza - neppure nel momento della sua morte); libero anche dalla tentazione interiore (non di solo pane vivrà l'uomo...). Gesù, in quanto Figlio, sa essere fratello. Accoglie i peccatori, e risponde all'obiezione dei Farisei. In realtà, non respinge nessuno dei due: come il Padre della parabola, che va incontro al figlio perduto, e va incontro anche al fratello recalcitrante, e lo invita a partecipare alla sua gioia.

Tocca a noi

Non sappiamo dei due fratelli chi effettivamente è entrato e ha fatto festa. L'evangelista non riporta le risposte dei due figli. Hanno capito? Sono rimasti nella casa con un cuore di figli? Luca non ce lo dice. La bella storia finisce senza finale, e sta a noi completarlo. Vorremo noi accogliere veramente Dio come Padre? E vorremo vivere come figli?


Flash sulla I lettura

"Oggi ho allontanato da voi l'infamia dell'Egitto": con l'ingresso nella terra, il popolo non è più soltanto indipendente, ma anche autenticamente libero, perché non solo non è più sottoposto ad alcun padrone, ma dispone anche di una terra da coltivare e con cui può vivere.
"Celebrarono la Pasqua": la Pasqua si rende necessaria, perché il popolo non dimentichi di essere stato liberato da Dio. Eccetto Giosuè, tutti quelli che erano usciti dall'Egitto erano morti: occorre pertanto recuperare nella propria identità la coscienza di essere stati liberati da Dio, e l'atteggiamento di gratitudine che ne consegue.
"La manna cessò": la manna cessa, perché il popolo può finalmente nutrirsi con i frutti della terra. Il punto difficile è però vedere che il popolo non smette di essere nutrito da Dio: nel deserto, attraverso la manna, nella terra, attraverso i suoi frutti, che l'uomo fa produrre con il suo lavoro. Il difficile per Israele, da questo momento in poi, sarà di continuare a sentire di essere nutrito da Dio, anche se in una forma più indiretta e meno tangibile, attraverso il dono della terra.
Questo racconto, di sapore rabbinico, riportato in un testo di S. Fausti, esprime esattamente i termini del problema:
"Il primo giorno che Israele entrò nella terra promessa, disse: "Che buono Dio che mi ha dato la terra!". E il secondo giorno tacque e pensò. Il terzo giorno disse: "Che buona la terra che Dio mi ha data!". E il quarto giorno tacque e considerò meglio. Il quinto giorno disse: "Che buona la terra!". E s'inchinò e la baciò; da allora cominciò a desiderarla come sommo bene, dimenticando il Padre che l'aveva donata e i fratelli con cui condividerla.
[da: Fausti S., Commento spirituale della lettera ai Galati. Verità del Vangelo, libertà di figli]"
Dalla considerazione della bontà di Dio, si passa alla considerazione della bontà delle cose. Ma dimenticando Dio, si diventa inevitabilmente schiavi degli idoli. E dimenticando il suo amore di Padre, si diventa inevitabilmente oppressivi verso i fratelli.

Flash sulla II lettura

"Se uno è in Cristo, è una creatura nuova": stare con Gesù produce una trasformazione profonda nella persona. Paolo la esprime con la metafora della rinascita, della nuova creazione: "... le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove".
"Tutto questo però viene da Dio": il rinnovamento dell'uomo però non procede interamente dalla persona, ma è reso possibile dall'iniziativa di Dio "che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo". Ma perché sarebbe necessaria una riconciliazione? Questo è il punto più controverso. Esprimendo la salvezza in termini di riconciliazione, Paolo sottintende una rottura, unasituazione non pacificata. Se questo poteva essere relativamente comprensibile agli ebrei del tempo di Paolo (che alla luce della loro storia potevano comprendere la storia di Israele come storia di peccato, e come attesa di una riconciliazione), non lo era altrettanto per chi proveniva dall'ellenismo, e non lo è per il mondo contemporaneo. Potremmo chiederci anche noi che cosa abbiamo fatto di male, e che bisogno potremmo avere di una riconciliazione. Riconoscere il nostro peccato nella sua profondità è per noi sempre più difficile.