Omelia (03-03-2013)
mons. Roberto Brunelli
Intelligenza e libertà di fronte alle sventure

Nella trasfigurazione di Gesù, narrata dal vangelo della settimana scorsa, compare il personaggio di Mosè, il quale torna nella prima lettura di oggi (Esodo 3,1-15). Vi si narra la sua vocazione: da un roveto che arde senza consumarsi, Dio lo manda in Egitto a liberare il suo popolo, oppresso dalla schiavitù, e nell'occasione gli rivela il proprio nome. Nella mentalità dell'epoca, il nome di una persona ne manifesta l'identità, e comunicarlo significa ammettere l'altro nella propria intimità; significa la volontà di stabilire rapporti di amicizia: questo è dunque l'atteggiamento di Dio verso gli uomini. Il Nome rivelato a Mosè si traduce come "Io sono colui che sono", cioè l'unico Dio, l'Eterno: nella circostanza, manifesta la sua bontà, perché ha compassione del suo popolo e lo soccorre. La bontà dell'Eterno si fa più evidente ancora nel Nuovo Testamento, quando Gesù dice che Dio è Padre: il Padre suo e nostro, il più amoroso dei padri.
Il vangelo odierno (Luca 13,1-9) si basa su un'esortazione, dedotta da due fatti di cronaca. Il primo è "il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici"; il secondo riguarda "quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise". Ricordiamo: Ponzio Pilato era il governatore romano della Palestina, espressione di una potenza che per affermarsi non esitava a ricorrere alla violenza; Siloe era un quartiere, il più antico, di Gerusalemme. Quegli episodi di duemila anni fa trovano un facile parallelo nell'attualità. Il primo, nella violenza praticata dagli uomini: le persecuzioni e le guerre, lo spaccio di droga e il cosiddetto femminicidio, l'inquinamento del suolo, le mafie, e via inorridendo. Il secondo, nella violenza della natura, con il corredo di morti per terremoti, tsunami, tempeste tropicali, montagne franose, eruzioni vulcaniche e via lamentando.
"Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? O quelle diciotto persone... credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?" chiede Gesù, conoscendo la mentalità dei suoi ascoltatori: e in entrambi i casi risponde con un categorico " No, io vi dico". Anche oggi non manca chi vede nelle disgrazie altrui una punizione del Cielo; ma forse più numerosi sono quanti lamentano che Dio non intervenga a impedirle, dimenticando che se ci manovrasse come robot violerebbe la libertà di cui ci ha dotati. E con la libertà ci ha dato l'intelligenza, per costruire case antisismiche e non in luoghi a rischio, per evitare di assumere droghe e quant'altro danneggia noi stessi e chi ci vive accanto, per edificare un mondo più giusto dove sia bandita ogni violenza e si viva in uno spirito di solidarietà.
In ogni caso, non sappiamo quando giungerà la fine della vita terrena: potrebbe capitare all'improvviso, e dunque occorre da subito pensare al "dopo", perché il "dopo" comporta un giudizio, per valutare i frutti che in questa vita ciascuno ha prodotto. E' quanto Gesù ricorda con la paraboletta del fico sterile: "Sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?" Così dice il padrone al contadino, il quale risponde: "Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai". In altre parole: Dio si aspetta frutti dall'uomo, e gliene offre i mezzi; aspetta con pazienza, ma non all'infinito. Ne deriva l'esortazione a non trascorrere una vita vuota, ma a riempirla di buoni frutti; non bisogna dunque né restare paralizzati dalla paura o dalla rassegnazione, né trascorrere i giorni presenti nell'indifferenza o nel male. Il richiamo di Gesù suona piuttosto come un invito a valorizzare la vita, a viverla in pienezza, densa di bene.