Omelia (10-03-2013) |
mons. Roberto Brunelli |
Non si vive di sola giustizia Il vangelo di oggi (Luca 15,1-3.11-32) è costituito da uno dei passi in cui meglio si condensa ciò che Gesù di Nazaret è andato proclamando nei tre anni della sua vita pubblica. E' una pagina-verità, in cui tutti ci possiamo riconoscere e in cui troviamo il volto autentico di Dio; una pagina commovente e insieme consolante, di quelle che una volta lette non si dimenticano più. E' la parabola detta del figlio prodigo. La storia presenta un padre con due figli adulti, e un'azienda agricola da mandare avanti. Il figlio maggiore non dà problemi: serio, lavoratore, rispettoso del padre; il minore invece è inquieto, insofferente della monotonia quotidiana: vuole vedere il mondo, darsi alla bella vita. Perciò chiede e ottiene la sua parte di eredità e se ne va lontano, là dove può gozzovigliare a piacere; incurante del futuro, si riduce ben presto in miseria; costretto a lavorare (il lavoro più "sporco" che gli ebrei potessero concepire: accudire ai porci) e ciò nonostante a patire la fame, ricorda che a casa sua anche i dipendenti avevano da mangiare in abbondanza. Il confronto lo porta a decidere: "Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Detto fatto: stracciato e affamato, si mette in cammino verso casa. Il padre, pur rispettando la sua libertà anche di sbagliare, non ha mai smesso di sperare nel suo ravvedimento; perciò al vederlo "ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò". Il figlio gli snocciola il discorsino che si era preparato, ma il padre non lo lascia neppure finire, e invece dà ordine di rimetterlo in sesto con onore (il vestito più bello, i sandali e l'anello al dito, come ai signori) e sacrificare il vitello grasso tenuto per le grandi occasioni: "mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". Il senso della storia è chiaro. Gesù presenta in quel padre "il" Padre, il Padre suo e nostro, il Padre nostro che sta nei cieli. E quel figlio scapestrato siamo, tanto o poco, tutti noi, così come siamo, tanto o poco, anche il figlio maggiore il quale, continua la parabola, non accetta il comportamento del genitore: "Ecco, io ti servo da tanti anni, non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso"! Invano il padre rivolge anche a lui la sua tenerezza: "Figlio, tu sei sempre con me; tutto ciò che è mio è tuo...". Secondo criteri di stretta giustizia, il figlio maggiore forse non ha tutti i torti. Ma non si vive di sola giustizia; con la sua grettezza egli dimostra di non avere cuore, di essere insensibile persino ai vincoli familiari, insomma di non saper amare né di saper riconoscere l'amore di cui è circondato. Dovendo scegliere tra i due fratelli, la simpatia va tutta al minore, il quale certo ha sbagliato, ma è stato capace di ravvedersi, mentre l'altro non si sposta un centimetro dalla sua meschinità. Sui due emerge tuttavia la sublime figura del padre, che corre incontro al figlio traviato e all'altro ricorda di non avere mai smesso di amarlo. E' lui, il padre, il vero protagonista della storia, alla quale per questo sarebbe più opportuno cambiare il titolo tradizionale, sostituendolo con < La parabola del padre misericordioso >. Essa manifesta meglio di tante definizioni l'amore di Dio per noi. E quanto a noi, la parabola ci sollecita a tornare al Padre, se ne siamo lontani; a riconoscere il suo amore, se siamo con lui; a imparare da lui a perdonarci a vicenda i torti, veri o presunti, per rinnovare i rapporti tra noi basandoli sull'amore. Come lui fa con noi. |