Omelia (21-03-2004)
mons. Vincenzo Paglia
Commento Luca 15,1-3.11-32

Questa domenica è chiamata laetare, ossia domenica della letizia, dalla prima parola della liturgia. Si vuole in qualche modo interrompere la severità del tempo quaresimale. Il colore viola, segno proprio di un tempo di penitenza, cede il passo al rosa, per la letizia che viene donata oggi al nostro cuore, quasi a farci pregustare la gioia della Pasqua. La serenità che troviamo in questa liturgia non nasce da noi, è un dono dall'alto; non promana dalla nostra onestà o da altre nostre qualità, essa trova ragione nel fatto che qualcuno ci accoglie così come siamo, senza neppure un previo esame.
Il vangelo di Luca, che oggi abbiamo ascoltato, inizia dicendo che «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro"» (15,1-2). L'evangelista sembra sottolineare con soddisfazione questo strano pubblico che si accalca attorno a Gesù. Per i farisei, invece, è segno di scandalo, perché la comunanza della mensa con i peccatori significa coinvolgimento nelle loro impurità. La loro accusa contro Gesù, pertanto, non è di poco conto.
Questa scena che è di scandalo per i benpensanti, per noi è vangelo, «buona notizia». È davvero una notizia lieta che uno come Gesù frequenti i peccatori. Del resto, la liturgia domenicale non è il convito di Gesù con noi, tutti peccatori? Non conversa egli con noi? Non ci dona da mangiare il suo pane e da bere il suo calice? Sì, la liturgia della domenica realizza ogni volta questi tre versetti del vangelo di Luca. Sia ringraziato il Signore per questo dono grande e certamente non meritato! Solo chi si sente «a posto» non capisce questa pagina evangelica e, tutto sommato, non riesce neppure a gustare la gioia che da essa promana. Solo chi non ha bisogno di essere accolto, perdonato e abbracciato ragiona allo stesso modo dei farisei e degli scribi. E a prima vista la loro grave accusa è più che ragionevole.
Come si difende Gesù? Non parlando di sé, ma del Padre. E narra la nota parabola detta del «figlio prodigo» (sarebbe meglio chiamarla del «padre misericordioso»). Forse è tra le pagine evangeliche più sconvolgenti. Si apre con la richiesta del figlio più giovane al padre di avere la sua parte di eredità. Ottenutala, se ne va via di casa. La sua vita, inizialmente brillante e piena di soddisfazioni, è poi colpita dalla violenza della carestia e dall'abbandono degli amici. Resta solo ed è costretto a fare il guardiano di maiali, l'unico modo che trova per sopravvivere! Persino i maiali stanno meglio di lui: «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava»(v. 16), nota tristemente il vangelo.
La vita di questo figlio è spezzata, come spezzati sono i suoi sentimenti Quanto gli è amaro ricordare i giorni in cui stava a casa di suo padre! Ma è proprio questo pensiero amaro a farlo rientrare in se stesso: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: "Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; trattami come uno dei tuoi garzoni"» (vv. 17-19). Si alza dalla sua triste condizione e si incammina verso casa. Il padre sta in attesa. Possiamo immaginarcelo sul terrazzo di casa che guarda lontano, verso l'orizzonte, nella speranza di vedere il figlio tornare. L'evangelista scrive che, quando il figlio «è ancora lontano», il padre lo vede e «commosso gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia» (v. 20). Non sa ancora perché il figlio stia tornando, né conosce cosa gli dirà, ma non importa. Quel che conta è che sta tornando. Non gli permette di dire nulla e gli getta le braccia al collo. Il cuore del figlio si scioglie e così pure la sua lingua. Pronuncia poche parole. Sembra che il padre neppure stia a sentirle e, dopo averlo rivestito con abiti nuovi, con i calzari e con l'anello al dito, ordina di fare immediatamente una grande festa. Tutto in brevissimo tempo.
Sta tornando dai campi il figlio maggiore, tutto casa e lavoro. Appena apprende il motivo della festa, va su tutte le furie e non vuole entrare. Ancora una volta è il padre che esce e gli va incontro, e lo prega perché comprenda la bellezza di quanto è accaduto ed entri a far festa anche lui. Non solo non entra, addirittura ha parole dure verso il padre: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (vv. 29-30). Il padre risponde con dolcezza: «Tu sei sempre con me», e con fermezza aggiunge: «Bisogna far festa» (vv. 31-32). Ha compreso che anche quel figlio è lontano, pur stando dentro casa. Pur essendo il figlio maggiore, non capisce l'amore del padre e il bisogno di affetto e di perdono che ha il fratello minore. Il padre è fermo con lui: non accetta che resti chiuso nella tristezza del suo egoismo; una fermezza che esprime un amore altrettanto grande, come quello che aveva mostrato per il figlio più giovane.
Care sorelle e fratelli, che splendida parabola questa di oggi! In una società così avara nell' accogliere i deboli, così poco pronta a perdonare, le parole che abbiamo ascoltato sono davvero vangelo, una buona notizia. Tutti noi abbiamo estremo bisogno di un padre così come ce lo presenta il vangelo, tutti abbiamo bisogno di una casa come questa, ove non solo siamo accolti, ma abbracciati con gioia.