Omelia (10-03-2013) |
Gaetano Salvati |
Commento su Luca 15,1-3.11-32 Il mistero di liberazione, definito duemila anni fa attraverso la croce e la risurrezione di Cristo, per mezzo del quale siamo creature nuove, non è un processo chiuso, fissato nelle maglie del tempo: richiede, quotidianamente, la nostra collaborazione, lo sforzo continuo del cuore e della mente per comprendere che il Salvatore ci rende capaci, oggi, di chiamare Dio Padre. Fra il movimento originale dell'Alto (rivelazione) e la nostra risposta alla Sua iniziativa, sta il sostegno offerto dalla Parola di Dio, valido aiuto a leggere nella storia i segni d'amore e ad attuare la libertà donata a noi dal Maestro. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, il Signore ricorda a tutto il popolo d'Israele la liberazione dall'Egitto (Gs 5,9). Nel Suo perdono, Dio segna l'inizio della cura "della terra di Canaan" (v.12), immagine dell'esistenza in cammino verso una libertà complicata, a volte incomprensibile. La medesima incomprensione risiede, forse, negli interlocutori di Gesù. Questi, infatti, non hanno capito perché "costui accoglie i peccatori e mangia con loro" (Lc 15,2). Allora, il Maestro "disse loro una parabola" (v.3). "Un uomo aveva due figli" (v.11). Il più giovane voleva subito la sua parte di eredità, la ricevette e "pochi giorni dopo parti per un paese lontano", sperperando tutto il suo patrimonio "vivendo in modo dissoluto" (v.13). Certamente, l'atteggiamento del giovane richiama la condizione di ogni peccatore: ci allontaniamo da Dio perché vogliamo essere liberi, consideriamo la sorgente della vita un impedimento per la nostra felicità. Ora però, quando il giovane ebbe "speso tutto" (v.14), quando si è sentito appagato per le sue mancanze, non sapeva come continuare a vivere. Decise, quindi, di mettersi al servizio di un tale di quella regione, che "lo mandò a pascolare i porci" (v.15). Notiamo la differenza fra la condizione attuale del ragazzo e quella prima di partire dalla casa paterna. Nella casa del padre poteva fare quello che voleva; adesso, invece, non è più libero, un altro gli ha detto cosa fare. Questa è la realtà di ogni peccato: ci illudiamo di trovare la felicità in una libertà priva di Dio; tuttavia, separandoci dalla Sua casa, dalla Sua presenza, rimaniamo schiavi di quelle illusioni che credevamo eterne. Fin qui la parabola sembra priva di speranza: siamo condannati a non essere mai liberi. Ma, Gesù afferma che il giovane "ritornò in sè". Ritornare in sé indica due elementi: in primo luogo, il padre, Dio, non si è mai distaccato dal figlio, è sempre stato al suo fianco, nonostante sia stato messo da parte per un istante; in secondo luogo, la presenza di Dio nella vita di ciascuno di noi è resa efficace se alimentiamo la nostra coscienza, il luogo dove Egli ci parla. Nella coscienza, orientata verso gli orizzonti infiniti di Dio, facciamo memoria dell'opera di salvezza attuata per noi da Gesù, e siamo in grado, di scegliere, di ritornare da Colui che ci veste del "vestito più bello" (v.22), che ci concede, cioè, la pienezza di vita, quaggiù e nella gloria. La parabola, però, non è conclusa. Gesù dice che il figlio maggiore, quando "si trovava nei campi", non era in casa, perciò si era allontanato anche lui come il minore, "udì la musica e le danze" (v.25). S'informò dell'accaduto e "s'indignò" (v.28) con il padre. La risposta del padre (Dio) ci dà prova ancora una volta che la Sua casa non ha dei confini, non è un palazzo, è dentro di noi, nella nostra coscienza; qui abbiamo tutti i mezzi, insieme ai sacramenti e alla Parola, per scegliere per o contro Cristo. Questa è la bellezza di Dio: sta con noi, sempre, eppure non ci impone delle scelte; siamo liberi perché amati, e in quest'amore possiamo e dobbiamo essere pronti a fare tutto. Spetta a noi, nel nostro cammino sulla terra, non spegnere la fiamma del Suo dolce richiamo a rimettere i nostri passi nel sentiero tracciato da Lui. Amen. |