Omelia (17-03-2013) |
mons. Gianfranco Poma |
Neanch'io ti condanno. Va' e d'ora in poi non peccare più Nella quinta domenica di quaresima la Liturgia interrompe la lettura del Vangelo di Luca con un brano singolare del Vangelo di Giovanni. Il racconto di Giov.8,1-11, assente dalle testimonianze più antiche e importanti del testo greco, è stato inserito nel quarto vangelo alla fine del sec. III. La sua canonicità non è comunque messa in dubbio: dopo S.Agostino e S.Gerolamo il testo è accettato come ispirato e canonico. Anche la sua collocazione, normalmente a questo punto del Vangelo, non è uniforme: le differenti collocazioni sottolineano che si tratta di una interpolazione secondaria effettuata quando il Vangelo di Giovanni circolava già da tempo all'interno di comunità la cui vita e i cui problemi si riflettono sulla formazione definitiva del testo. Per la sua interpretazione gli esegeti si dividono tra coloro che ritengono che si tratti di una tradizione antica, anzi, di una "tradizione autentica di Gesù" e coloro che ritengono che il racconto non si inquadri nel contesto giudaico del tempo di Gesù né in quello immediatamente successivo: si tratta dunque di un racconto costruito sulla "memoria" di Gesù, per rispondere a problemi vivi della comunità cristiana già inserita in un contesto nuovo. Siamo di fronte ad una pagina particolarmente importante per noi, oggi, come esempio di "inculturazione" della fede: già all'interno del Vangelo è presente la testimonianza, comune a tutta la Scrittura, del dinamismo della fede che si attualizza incarnandosi nella storia che cambia e nelle situazioni sempre nuove. Di che cosa, dunque, si tratta? Dice il racconto: "Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè nella Legge ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Lo studio attento del racconto, il fatto della donna sorpresa in flagrante adulterio e di ciò che la Legge prescrive (Lev.20; Deut.13.20.22) e i testi rabbinici precisano, conduce alla conclusione che non si possa trattare di un fatto realmente accaduto, ma che il narratore abbia liberamente ideato e costruito il suo racconto in funzione dei problemi della comunità del sec.II. La chiesa giovannea vive "nel mondo senza essere del mondo", vive in modo diverso da come si vive "fuori": ma in che cosa consiste la "novità" cristana? Il rischio di una comunità integralista, fondamentalista, perfezionista, oppure buonista, moralista, oppure ipocrita, è grande e già (e sempre) incombente sulla chiesa. Qui, nel nostro racconto, tutto, in modo simbolico, è vero e concreto: interpretare il linguaggio simbolico per comprendere la realtà che viene presentata è un impegno raffinato che il nostro brano comporta per coglierne pienamente il significato. Anche all'interno della comunità credente è presente il peccato: come si comporta la comunità che crede in Gesù, che non giudica e non condanna ma è mite, misericordioso, perdona e mangia e beve con i peccatori? La donna "adultera" rappresenta ogni persona che nella comunità che vuole prendere le distanze dal mondo e vuole distinguersi da esso per la sua "purezza", sperimenta la propria fragilità ed è indifesa di fronte alla rigidità di coloro che, chiusi nel loro rigorismo senza misericordia, pongono la domanda: "Come comportarsi con coloro che macchiano gravemente la "purezza" della comunità?"; "Bisogna espellerli perché non esistano più per la comunità?". Gli scribi e i farisei sono introdotti dal narratore in quanto avversari classici di Gesù: evidentemente in questo contesto rappresentano soltanto il tipo del rigido legalismo presente nella comunità cristiana, ben distante dai difensori della purezza e della integralità dell'osservanza della Legge in contesto giudaico. Tutto ci invita a pensare che il problema che il nostro brano affronta riguardi l'identità della comunità cristiana: come vive la fragilità, il peccato al suo interno? Se vuole essere fedele, non può che porre la domanda a lui, il Maestro. E la domanda è radicale: i "maestri della Legge" vogliono prendere in fallo Gesù. Se egli non condanna la donna adultera è contro la Legge, e quindi non può essere considerato un Maestro; se la condanna rinnega tutto il suo messaggio di misericordia. In realtà la radicalità della domanda riguarda la condotta della comunità cristiana: come può essere fedele al "Vangelo" quando all'interno di se stessa ritrova la stessa realtà del mondo? "Maestro... tu che cosa dici?" Si rivolgono al "Maestro" per avere da lui la regola per la comunità. Gesù è seduto: nell'atteggiamento del maestro e come nuovo Mosè deve dare una interpretazione della Legge. "Ma Gesù si chinò e cominciò a scrivere con il dito sulla terra". La prima risposta di Gesù è un segno accompagnato dal silenzio: tutti possono vedere e sentirsi interpellati nel profondo del proprio cuore. Come i profeti antichi anche Gesù compie un gesto simbolico: si china (tutto il racconto è segnato da questo "chinarsi" e "rialzarsi" di Gesù) e segna col dito la terra. La Legge nuova è scritta da Colui che si è abbassato per scriverla sulla fragilità della terra, non più sulla durezza di tavole di pietra. "Ma siccome quelli insistevano nell'interrogarlo, Gesù si alzò e disse: Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra". Adesso Gesù si presenta come giudice, non per condannare ma perché ciascuno prenda coscienza di se stesso, senza ipocrisia, con estrema verità. Poi Gesù si china di nuovo e continua a scrivere sulla terra: continua il suo segno profetico, davvero egli conosce la fragilità dell'uomo. Nel silenzio che egli crea perché tutti abbiano il coraggio della verità, comincia ad accadere qualcosa di nuovo: "se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani". Ed ecco la novità cristiana: "Lo lasciarono solo". La solitudine di Gesù: Lui solo è la vita della comunità, Lui solo è l'amore che perdona. Nessuno nella comunità può sovrapporsi a Lui: Lui solo è la Legge "nuova". "E la donna era là in mezzo": non è più in un tribunale, sotto accusa, è al centro dell'amore; non è più l' "adultera", è la donna, non più oggetto di discussione, ma un soggetto che parla, che risponde a Colui che la guarda come una persona. "Gesù si alzò (adesso è il Signore che fa nuova ogni cosa) e disse: ‘Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?'. Ed ella rispose: ‘Nessuno, Signore'. E Gesù disse: ‘Neanch'io ti condanno, va' e d'ora in poi non peccare'." La logica di Gesù non è la condanna: egli conosce il peccato ma sa che il rimedio è l'amore per il peccatore, il perdono che tocca il cuore e rigenera perché non pecchi più. Il perdono è l'amore con cui Dio ricrea la fragilità dell'uomo. I "maestri della Legge" hanno avuto il coraggio della sincerità nel sentirsi tutti, ognuno, peccatori: nessuno ha il diritto di "condannare" l'altro. E si sono allontanati, uno per uno... Gesù è rimasto solo con lei, per rigenerarla con il suo amore fatto della com-passione di Colui che conosce la fragilità dell'uomo. La comunità cristiana è fatta dei discepoli di Gesù, che rimangono con Lui, che sperimentano la loro fragilità amata da Lui e che imparano ad amarsi tra loro e a perdonarsi vicendevolmente perché ciascuno sperimenta l'amore misericordioso del Signore: la comunità cristiana non condanna ma rigenera non perché è fatta di eroi, ma per la forza di Colui che si è chinato sulla debolezza umana e l'ha amata. La comunità cristiana prega ogni giorno con la preghiera che il suo Signore le ha insegnato: "perdona a noi i debiti che abbiamo verso di te, come noi abbiamo perdonato coloro che avevano dei debiti verso di noi". Ma la nostra comunità è veramente il luogo nel quale sperimentiamo il perdono che ci doniamo vicendevolmente? "Va' e d'ora in poi non peccare": solo l'esperienza di essere amati rigenera la vita. Questa parola di Gesù risuona veramente nella nostra comunità, come logica nuova che cambia il mondo? |