Omelia (24-03-2013)
padre Gian Franco Scarpitta
Dalle palme alla croce

Zaccaria lo aveva profetizzato: "Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un'asina, su un puledro figlio di bestia da soma" (Zc 9, 9). Si riferisce al Messia che adesso, conosciuto con il nome di Gesù Cristo, fa ingresso nella città di Gerusalemme percorrendone le vie di accesso mentre tutt'intorno la folla acclamante gli si stringe addosso. A Gesù si applica infatti la profezia di Zaccaria del "re della pace" che merita la gloria e il plauso del popolo a motivo della sua mansuetudine e della sua umiltà. Come scrive Ratzinger, nel suo glorioso ingresso, Gesù di fatto rivendica una prerogativa di regalità, come del resto si evince dall'emblema del lancio dei mantelli (simbolo di approvato potere regale): vuole essere riconosciuto re universale. Tuttavia il suo potere non collima con le prerogative umane di coercizione e di violenza, ma si fonda sull'umiltà e sulla ristrettezza, per cui Gesù regna facendosi egli stesso povero al servizio dei poveri. Già lo stesso Regno di Dio è una realtà fondamentale di semplicità il cui riflesso si palesa nelle opere di misericordia; la stessa regalità di Cristo è evinta dalla concretezza di atti di amore a vantaggio dei poveri ai quali è annunciata la Buona Novella, verso gli esclusi, gli umili e gli abbandonati che vengono raggiunti così dall'amore del Padre che in Cristo manifesta la sua efficacia. Adesso però questa regalità si rivela soprattutto nella prefigurata immagine del Messia, la cui gloria è caratterizzata dalla sottomissione e dalla piccolezza, che ancora una volta verte a vantaggio dei poveri e dei sofferenti. Espressione di questa piccolezza è la cavalcatura semplice e umile. Essa è eloquente già in se stessa, ma non impedisce che la gente gridi "Osanna" al Signore che procede poco per volta verso il centro di Gerusalemme, accolto con il lancio dei rametti di ulivo e dei mantelli che si stendono man mano che egli passa. Ma ancora più eloquente ed espressiva è la prospettiva della croce, alla quale Gesù non si sottrae, ma che sempre per amore dell'umanità povera e sofferente, si dispone risolutamente ad accettare.
Il trionfo di Gesù, esaltato da palme e rami di ulivo, si trasformerà presto in paura e angoscia, quando dovrà affrontare il supplizio estremo del patibolo. Per la qual cosa Gesù è l'uomo della gloria e dell'esultanza, il Re universalmente riconosciuto, ma è anche la vittima di espiazione, il capro espiatorio, l'agnello votato al macello (Cfr. Is 52 - 53). Il Dio della gloria diventerà il simbolo del disprezzo e della vergogna e si farà per noi maledizione.
Ecco perché accompagnare Gesù nel suo percorso non è facile. Non lo era per gli apostoli che lo accompagnavano, soprattutto per Pietro, che poco prima si era precluso all'idea che il suo Signore si dirigesse verso la morte sicura: aveva protestato e tendeva a distogliere Gesù da tale progetto meritando addirittura l'appellativo di "Satana". Non è facile neppure per noi associarci a siffatto percorso e immedesimarci in ciascuna delle sue tappe, e anche se la liturgia ci aiuta nella celebrazione di ogni singolo evento della passione a familiarizzare con il Cristo sofferente, la nostra condizione non ci rende in grado di appropriarci di ogni suo singolo contenuto. La festosa aria primaverile che caratterizza questa Domenica nella quale ostentiamo le nostre palme e rametti d'ulivo alle aspersioni di acqua benedetta ci fa condividere la gioia di coloro che, numerosi, accompagnano Gesù nel suo ingresso nella città trionfale, ci avvincono al fascino della gente che distende i mantelli e che si dà all'esultanza nell'ovazione e nell'acclamazione. Questo fa sì che sperimentiamo per noi stessi la caparra di gioia del Cristo Risorto. E' tuttavia difficile per noi il passaggio dall'esultanza alla passione; dalla gloria al sacrificio, dalle palme alla croce: di fronte alla croce si resta sempre allibiti e refrattari o comunque non la si considera mai pienamente nella sua vera portata di salvezza e di necessità: restiamo forse passivi spettatori, poco coinvolti, e se ci affascina il mistero d'amore con cui Cristo ha speso la sua vita per noi, non sappiamo far nostra la sua croce nelle nostre croci.
Come ha detto il nuovo pontefice Francesco durante la sua prima Messa ai cardinali, dovremmo avere il coraggio - poiché di questo si tratta - di accogliere la croce come prospettiva determinante della vita cristiana, come luogo di configurazione dell'identità cristiana. Certamente la croce non è finalizzata a se stessa, essa è propedeutica al premio della gloria e dell'esultanza della Resurrezione, poiché, morti con Cristo, siamo destinati anche ad avere la vita con lui, tuttavia l'essenza della croce è in se stessa irrinunciabile.
Per mezzo della Chiesa che da oggi ci propone l'intero percorso celebrativo del patire di Gesù che è appena entrato a Gerusalemme e si incammina verso il Getzemani quindi verso il Golgota, lo stesso Signore ci invita a far nostro l'itinerario della gioia e del dolore, senza che venga estromesso né l'uno né l'altro e al contempo ci invita a consolidare ambedue le tappe di gioia e di dolore come facenti parte dell'ordinario della nostra vita e promettenti l'una in direzione all'altra.
Gioia e dolore, come pure il male e il bene, sono caratteristici del vissuto umano e nel cristianesimo sono connotati di chi ha accolto nella fede il vero Salvatore.