Omelia (26-02-2012)
Paolo Curtaz
Commento su Marco 1,12-15

Non rendiamo più triste il nostro già triste cristianesimo, rendiamolo più agile, più vero, più temprato, più cattolico. Questo, certo, vorrà dire abbandonare l'uomo vecchio, ma per qualcosa di ben più prezioso di una medaglia d'oro.

Gesù inizia la sua vita pubblica nel deserto. C'è molta Bibbia, dietro questa scelta: i quarant'anni nel deserto di Israele, il deserto luogo di incontro dei Profeti, da Isaia a Osea, il Battista... Gesù va nel deserto dopo il battesimo, sospinto dallo Spirito. Solo i credenti, i battezzati, coloro che cercano ancora e meglio Dio, sanno sentire lo Spirito e spingersi nel deserto. Lo Spirito ci spinge nel deserto, quando la nostra vita di credenti scricchiola, vacilla, si stanca, o, peggio, si siede. Il credente va nel deserto, perché nel deserto si riscopre fuggiasco, pellegrino, viandante. Il deserto è nel nostro cuore, perché nel deserto possiamo avvertire la sottile e silenziosa presenza di Dio. Marco ha una curiosa annotazione: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Nel deserto, quando gettiamo le maschere, quando ci mettiamo in gioco, quando siamo tentati dall'avversario, siamo assaliti dalle fiere. L'orgoglio, l'invidia, la rabbia, la blasfemia, la violenza abitano in noi, sono accovacciati in un angolo della nostra interiorità. È ingenuo pensare di non esserne sedotti, è cristiano scegliere di lasciarli fuori dalla porta. Il discepolo sa di non essere migliore dei non credenti, vuole solo essere più vigile.