Omelia (25-03-2012)
Paolo Curtaz
Commento su Giovanni 12,20-33

Filippo è contattato da alcuni greci che vogliono vedere Gesù. Si aspettavano di incontrare un grande filosofo saggio disposto a condividere con loro la sua dottrina. E, invece, trovano un uomo turbato e dubbioso, che vede in quell'interessamento da parte dei pagani una specie di segnale, un'intuizione della propria fine.

Tutto si sta compiendo, dunque, sta per suonare l'ultima campana. Questo Dio che accetta il limite dell'uomo, che sceglie, come noi, che sbaglia, come noi, si rende conto, ora, che sta per compiersi la sua ascesa al Padre. Non è bastato quanto detto, né i segni, né il volto svelato del Padre. Tutto inutile: l'uomo non sembra in grado di cambiare, preferisce tenersi un Dio severo e scostante, un Dio da servire con sfarzose cerimonie e da corrompere con sacrifici. Gesù si è incupito: le cose sono diverse, ora, impreviste. Sì, certo; alcuni lo hanno seguito, anzi sono entusiasti, ma durerà? E i suoi amici, quelli che ha scelto, che ha seguito, che ha istruito, che ha amato, saranno capaci? Gesù pensa a quei quaranta giorni passati nel deserto di Giuda, tre anni prima. Che fare, ora? Arrendersi? Lasciar perdere, sparire? Abbandonare l'uomo al suo destino? Una scelta, l'ultima, assurda, paradossale, esiste: la sconfitta. Lasciarsi andare, consegnarsi, sparire... forse servirà a far capire che parlava sul serio. Forse. Come esserne certi? È in gioco la libertà degli uomini, non quella di Dio. Bisogna morire, come il chicco di frumento. Scommessa ardita, rischio inaudito, follia. Davanti ad un Dio morto e nudo, mostrato, osteso, l'uomo davvero capirà?