Omelia (18-11-2012) |
Paolo Curtaz |
Commento su Marco 13,24-32 Siamo alla fine dell'anno liturgico, e la Parola ci orienta in una direzione ostica e impegnativa, ci invita a guardare avanti e altrove e con un altro sguardo: è il tema del futuro, della fine del mondo, dei novissimi. Cosa succederà domani? Come andrà a finire la Storia? Che ne sarà di noi? Predicazioni medioevali e film di serie "B" ci rappresentano la fine del mondo come un delirio di fiamme e di distruzione, come il sommo giudizio finale fatto di caligine e di paura. La "colpa" di questa interpretazione approssimativa è del linguaggio apocalittico usato da alcuni libri della Scrittura, come il brano di Daniele che abbiamo letto oggi, fatto di forti immagini da non prendere alla lettera. Ciò che i cristiani hanno capito è semplice: Cristo, risorto e asceso al Padre, tornerà nella pienezza dei tempi, tornerà per completare il suo Regno, le anime dei nostri defunti riprenderanno i propri corpi trasfigurati e risorti e sarà la pienezza. Nel frattempo, e questa è una nota dolente, quel buontempone di Dio ha affidato a noi, fragile Chiesa, il compito di far crescere il Regno. Questo è il tempo della Chiesa. Non il tempo di restare seduti ed aspettare (come sta succedendo), ma di annunciare il Vangelo, finché il Signore torni. Una corrente del pensiero ebraico contemporaneo invita tutti, anche i non ebrei, a comportarsi con rettitudine, per accelerare per loro la venuta del Messia, e per noi il ritorno. Non è una ragione sufficiente per cambiare il mondo a partire da noi stessi? |