Omelia (18-04-2004) |
don Elio Dotto |
Il coraggio di illudersi (addirittura) Certo fa impressione vedere i discepoli di Gesù chiusi in casa, e quasi terrorizzati alla sola idea di uscire dal luogo dove si trovavano (Gv 20,19-31). Fa impressione, perché vengono alla mente i primi tempi, quando i discepoli si erano incamminati con ardore dietro il Maestro: viene alla mente l'entusiasmo di Pietro, che con il fratello Andrea aveva lasciato il suo lavoro per seguire Gesù; ma viene alla mente anche l'intraprendenza di Giovanni e Giacomo, che addirittura avevano chiesto di essere i primi collaboratori del Signore. Ed ora invece eccoli tutti qui, chiusi in casa, con le porte sbarrate, pieni di paura. «Per timore dei Giudei», si affretta a spiegare l'evangelista Giovanni. Ma in verità non è solo il timore dei Giudei a spaventare i discepoli; è piuttosto la prudenza a tenerli chiusi in casa, la triste prudenza di chi è stato ferito dalla vita, e non vuole rischiare altri guai. È appunto quanto afferma Tommaso, dando voce al dubbio di tutti: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Perché già una volta – pensa Tommaso – mi sono illuso; e non è certo il caso di illudermi ancora. Così pressappoco avevano ragionato tutti i discepoli, in quel primo giorno dopo il sabato; e così ragionavano ancora otto giorni dopo. E noi certo li comprendiamo bene, perché tutti mettiamo in atto una simile prudenza. Anche noi infatti siamo stati feriti dalla vita: magari certi nostri sogni si sono infranti troppo in fretta; oppure abbiamo perso una persona cara, e non sappiamo darci pace; o ancora siamo come nauseati dalla banalità che intesse le nostre giornate. Anche noi – in un modo o nell'altro – siamo stati feriti dalla vita: e allora non abbiamo più voglia di rischiare, di fare grandi sogni, di nutrire desideri nuovi... Già altre volte ci siamo illusi; e dunque non è certo il caso di illuderci ancora. Appunto allo stesso modo ragionavano i discepoli, nei giorni della Pasqua: e la loro triste prudenza pareva insuperabile. Eppure, poco tempo dopo, a Gerusalemme, «molti miracoli e prodigi avvenivano per opera degli apostoli» (At 5,12-16). Qualcosa di nuovo dunque dovette accadere in quel tempo, una speranza nuova dovette balenare agli occhi di quei discepoli, trasformando la loro vita. E così può accadere anche oggi, in questo nostro tempo. Ma perché davvero accada, dobbiamo – come i discepoli – continuare ad attendere, magari anche rischiando di illuderci. È vero, molta gente ci invita alla prudenza, ci suggerisce di volare basso, di non sognare troppo, perché alla fine non ne vale la pena. Eppure è meglio arrivare alla fine con una speranza in cuore, piuttosto che rassegnarci subito dietro una triste prudenza. |