Omelia (13-03-2012) |
Paolo Curtaz |
Commento su Matteo 18,21-35 La proposta di Pietro è generosa ed eroica, quella di Gesù folle, che capiamo solo nella logica divina. Siamo chiamati a perdonare sempre perché siamo perdonati sempre. Il piccolo credito che abbiamo verso i fratelli non è nulla rispetto al debito mostruoso che abbiamo contratto verso Dio. E che egli ha cancellato. Il debito del servo è volutamente assurdo: un talento equivale a 36 chili d'oro. Diecimila talenti è una cifra inimmaginabile. Quel debito viene condonato, non il debito dell'altro servo che, pur dovendo una cifra consistente al collega, circa duecento giornate lavorative, non ha di che pagare. La reazione del padrone è feroce: sei chiamato a perdonare perché ti è stato condonato molto di più. Ecco la ragione del perdono cristiano: perdono chi mi ha offeso perché io per primo sono un perdonato. Non perdono perché l'altro migliori, o si converta, o si intenerisca. A volte l'altro non sa nemmeno di essere stato perdonato e può disprezzare il mio gesto. Non perdono perché l'altro cambi, ma perché io ho urgente bisogno di cambiare! Il perdono mi situa in una posizione nuova, diversa, mi rende simile a quel Dio che fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti. |