Omelia (18-04-2004) |
don Mario Campisi |
In ognuno di noi abita Tommaso E' bello che sia così. Che vi sia stato Tommaso, e che egli continui ad abitare in noi. Già una volta Tommaso ci è servito. Ha chiesto a Gesù come mai potessero "conoscere la strada". E Gesù ha risposto a lui e a noi: "Io sono la via..." (Gv 14,6). Ora ci serve nel suo dubbio che conclude con l'esclamazione: "Mio Signore e mio Dio". Tommaso abita in noi. Come lui non siamo soli, siamo con gli altri discepoli, con la Chiesa. E ci siamo con i nostri dubbi, le nostre perplessità. Davvero "nostri", perché miei e degli altri discepoli. Se mi facessi passare o gli altri, nei miei confronti, si facessero passare come gente senza dubbi, senza nessuna incrinatura, potremmo forse farci anche passare come dei diamanti perfetti. Basterebbe un esame accurato e l'esperto di pietre preziose capirebbe subito che non si tratta di diamante, ma di fondo di bottiglia. Ben lavorato, forse, sfaccettato magari, sempre fondo di bottiglia però. Tommaso abita in noi, e noi non siamo soli, siamo nella Chiesa e dunque consapevoli che mentre io oggi covo un dubbio, mi macero in una perplessità, nel contempo ci sono tanti nella Chiesa (discepoli sconosciuti a me, non al Risorto) che stanno gridando anche per me: "Mio Signore e mio Dio". Il caso di Tommaso è una specie di drammatizzazione della difficoltà di credere nella risurrezione. Chiese troppo Tommaso, dal momento che anche gli altri discepoli avevano avuto bisogno di "vedere" per credere? Certo, egli poteva dare cerdito alla testimonianza degli amici che "avevano visto il Signore" e attendere semmai una personale conferma! In ogni caso, un merito Tommaso l'ha avuto: pur incredulo non ha abbandonato i discepoli, ha accettato di rientrare nel gruppo, di rimanere con loro, di aspettare con loro: "C'era con loro anche Tommaso". Il Risorto concede a Tommaso l'esperienza di un segno così marcato, non isolatamente ma in seno alla comunità dei discepoli, ancora una volta riuniti di "domenica". L'assemblea eucaristica domenicale appare, dunque, il luogo e il tempo privilegiati della presenza e del riconoscimento del Signore. "Il gruppo dei discepoli viene costituito in Chiesa dall'apparizione del Risorto, dal suo mandato missionario e dalla comunicazione dello Spirito. La vita pasquale si può vivere solo ecclesialmente" (H. Schurmann). C'è un discernimento concreto per sapere se siamo "uomini pasquali" nella nostra vita cristiana, ecclesiale e missionaria. la parola di Dio in questa domenica ci dà delle riprove che ci misurano: si tratta della liberazione dalla paura e del possesso della pace e della gioia cristiana. Si parla molto di pace; è un bene; si intende però per lo più quella pace detta in opposizione alla guerra, alla violenza. Non è la pace dei paciocconi e dei leggeri di mente e di cuore, ma dono originale di Cristo all'"uomo nuovo". Una pace che non è senza dolore, senza prove, senza momenti di angoscia, ma che regna sovrana sopra quanto sperimentiamo ogni giorno. Essa si ottiene proseguendo a far "regnare" Cristo nella nostra vita, a tenere "lo sguardo" fisico, spirituale e contemplativo su di lui. La "teologia dello sguardo" è importante e bisogna farci abituale l'aver l'occhio a Cristo. Si parla molto di gioia; è un bene; si intende però per lo più quella gioia che consegue ad una "qualità della vita" accettabile. La pace interiore fiorisce nella gioia. La "sobria gioia" del cristiano non si trova cercandola direttamente perché la gioia non è una virtù, ma "un effetto di virtù". Viene, cioè, da un'altra cosa. E questa cosa è la carità. "La gioia è un effetto della carità". Solo chi ama e ama cristianamente ha gioia. Se dunque vedete gente che non esprime gioia dite che non sa amare e non è amata. Quanto è importante questo! Sentendovi amati da Dio, sentendo intorno a voi la carità avete l'avvio a vivere nella gioia, e "amando come Dio ama" la gusterete intensamente. Hanno poco a che vedere con la pace e la gioia che dà il Risorto. "Pace" in lui vuol dire "pienezza di vita", con tutte le conseguenze. Prima questa: chi può dire, senza di lui, "io sono operatore di pace"?, dove e come gli riesce vivere pienezza di vita? "Gioia" in Gesù vuol dire vittoria sul peccato, sulla morte, sul legalismo. Chi può dire, senza di lui, "io ho vinto il peccato, la morte, il legalismo"?, quando riuscirà a dimostrarlo, impastato com'è di peccato, di morte e di legge? Una pace vera non può limitarsi ai sit-in contro gli armamenti. Una gioia autentica non può concludersi in qualche celebrazione festosa. La pace e la gioia vere rendono i discepoli di Gesù dei "mandati", mai da soli, ma nello "Spirito". Quello Spirito che è importante che il cristiano sappia riconoscere presente anche là dove gli sembra che non ci sia Chiesa. |