Omelia (21-09-2012)
Paolo Curtaz
Commento su Matteo 9,9-13

La più antica tradizione cristiana attribuisce il primo vangelo a Levi il pubblicano. Un vangelo scritto sull'esempio di Marco, destinato ad una comunità di giudeo-cristiani, forse di Gerusalemme. È Matteo, oggi, che festeggiamo.

Leggere la vicenda umana e spirituale di Matteo ci rallegra il cuore. Ma, per farlo, dobbiamo uscire dagli stereotipi, anche cattolici!, che inquinano il nostro giudizio. Sappiamo che Levi è un pubblicano, uno che appalta le tasse dai romani, un rinnegato senza fede. Come tutti i pubblicani è odiatissimo dai suoi correligionari, ma non sembra farci troppo caso: non ci viene detto quale sia la sua vita di fede ma, in un'epoca che esasperava i contrasti, è probabile che non seguisse le puntigliose e infinite prescrizioni della Legge che palesemente contraddiceva. Eppure quell'incontro col Nazareno, ospite di Pietro di Betsaida, il pescatore, gli ha cambiato radicalmente la vita. Poche battute per raccontare quell'incontro, avvenuto al banco delle imposte: Gesù che si avvicina, gli chiede di lasciare tutto e lui che si alza e lo fa. Ma un particolare ci illumina: la festa che Matteo offre a tutti i suoi amici per sottolineare l'evento. Quanta gioia era nascosta nel cuore di Matteo, abituato ad essere insultato? Quale sguardo ha scardinato la sua corazza? Dopo trent'anni racconta quell'evento fondante della sua nuova vita. La conversione richiede costanza, fedeltà, e Matteo l'ha avuta e ci dice: ne è valsa la pena.