Omelia (26-07-2013) |
Riccardo Ripoli |
L'uomo che ascolta la parola e subito l'accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante Costanza è una parola difficile da digerire ed ancor più da mettere in pratica. Essere costanti significa non fermarsi all'entusiasmo del momento, alla gioia verso qualcosa di nuovo, magari legato alla speranza di una gratificazione. Costanza significa andare oltre il muro che si crea in un rapporto, svegliarsi al mattino belli carichi per ciò che dobbiamo fare, credere in qualcosa o in qualcuno anche quando una certa situazione potrebbe portarti a dubitare. Oggi l'incostanza è una malattia molto diffusa e, seguendo l'adagio "mal comune mezzo gaudio" in molti pensano che sia la normalità, che essere incostanti sia la cosa giusta. Oggi faccio una cosa, domani ne faccio un'altra. Così assistiamo a persone che iniziano una relazione, poi seguono il profumo tentatore di altri e cambiano strada: vediamo volontari iniziare un'attività con un'associazione, instaurare rapporti significativi con bambini in difficoltà che si affezionano e poi, da un giorno all'altro, spariscono nel nulla, solo per incostanza, per il desiderio egoistico di provare nuove esperienze, senza minimamente pensare al dolore che aggiungono a chi aveva creduto in loro. Costanza significa far parte di una famiglia, di un gruppo, di una comunità e sentirsi parte integrante di essa, nel bene e nel male, e svolgere qualunque servizio con il sorriso, con la gioia di chi sa di essere una particella importante di un meccanismo più ampio. Così è anche nella Fede. Chi crede con gioia, non sempre ha la costanza di andare avanti quando si trova dinanzi un problema, una tribolazione, un po' come un seme caduto nel terreno sassoso che subito germoglia, ma poi, privo di radice, subito appassisce |