Omelia (25-12-2013)
padre Gian Franco Scarpitta
Natale di pace e di umiltà

Come giustamente afferma Razinger, l'anno liturgico in origine non aveva inizio con l'Avvento, ma con la celebrazione della Pasqua, perché effettivamente è proprio la Resurrezione il culmine della nostra fede nonché l'oggetto principale dell'annuncio degli apostoli dopo Pentecoste.
La Pasqua tuttavia non prende le distanze dal Natale, perché il fatto che Cristo Figlio di Dio con la Resurrezione sia passato da morte a vita è un evento singolare che rimanda al primario Avvenimento della storia della salvezza dell'Incarnazione. In altre parole, Cristo Risorto è lo stesso Signore che si è Incarnato e l'evento di Betlemme ci ragguaglia del fatto che si è incarnato nell'umiltà, assumendo l'umanità in tutto e per tutto, perfino nello specifico dell'infanzia esile e abbandonata.
Nelle Domeniche precedenti, il profeta Isaia ci aveva illuminati su una caratteristica singolare del Fanciullo di Betlemme, attraverso una frase significativa e compendiosa: "il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi"(Is 11, 6-8). Il profeta annuncia con queste immagini allusive e quasi mitologiche la novità di un mondo restaurato e consolidato nell'unione e nella pace, nel quale anche gli opposti coincidono e gli uomini non avranno nulla da temere. La descrizione di questa promessa si conclude con l'immagine fascinosa di un bambino che mette la mano nel covo dei serpenti velenosi. Già Dio si era mostrato superiore al veleno dei serpenti, quando aveva salvato gli Israeliti dai morsi di questi animali fra le zolle del deserto attraverso un serpente di rame (Nm 21, 4 - 9) e aveva punito il serpente antico, il diavolo, per aver sedotto Eva inducendola al male. Se il serpente incute paura all'uomo, Dio dimostra che non c'è ragione di temere, ciò specialmente in questo bambino che tocca il covo dei serpenti velenosi senza subirne danno.
Il Bambino prefigura il Messia, che sempre Isaia vede nascere da una vergine: "La vergine concepirà e darà alla luce un Figlio che sarà chiamato Emmanuele, Dio con noi" (Is 7, 14). Anche se di fatto la profezia si riferisce al re Ezechia, il profeta è lungimirante nel delineare che questo bambino nato dalla "vergine" (ragazza, donna da marito) sarà il Salvatore atteso dalle genti, il Re universale e Messia, che germoglia dal tronco di Iesse (Is 11, 1).
Questi "Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese. La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l'empio. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà» (Is 11, 3-5)
La regalità del Messia sarà l'esercizio della giustizia universale e l'imparzialità, fatta eccezione per i poveri e per i derelitti che saranno sempre oggetto della sua predilezione. Con la sua venuta tutto il mondo sarà risollevato perché egli assume tutto il mondo entrando a farne parte, diventando una parte del Tutto.
Matteo è molto attento a descriverci il Bambino di Betlemme come Colui che è il risultato delle promesse antiche rivolte da Dio al popolo d'Israele, visto che si premura di enumerare le tappe della genealogia che da Abramo conducono a lui, per poi concludere che Gesù è lo stesso Emmanuele che salverà il popolo dai peccati (Mt1, 1 - 23). Il Bambino ora accudito da Maria e Giuseppe nella grotta è il Signore che pur restando Dio diventa vero uomo ed entra nella storia mettendo in ordine tutte le tappe e le congiunture di essa. Gesù Cristo offre anzi ragioni di speranza alla nostra storia e nel nostro procedere fra le molteplici vicende del mondo ci rassicura che le nostre speranze non sono disattese e che non siamo mai soli né abbandonati. C'è chi veglia su di noi, soprattutto su coloro che vivono le varie forme di debolezza e di precarietà nella miseria, nella povertà e nel peccato.
La nascita di Gesù nella carne non è infatti un evento fra i tanti, ma pone in essere la reale partecipazione di Dio alle intemperie e alle ansie della nostra vita ordinaria.
Dove, concretamente, noi possiamo trarre la certezza di non essere trascurati da Dio? Semplicemente osservando le condizioni nelle quali il Figlio di Dio decide di convivere con l'uomo: la semplicità e l'umiltà.
Dio, che avrebbe potuto debellare i nostri piani intervenendo poderosamente attraverso prodigiosi sconvolgimenti cosmici, che avrebbe potuto anche incarnarsi assumendo le fattezze di un eroe indomito e immortale e che avrebbe potuto anche preordinare per sé l'alloggio confortevole di un palazzo sontuoso, sceglie di assumere le più basse fra le ristrettezze dell'infanzia, al punto da lasciare che due giovani paesani lo accudiscano e lo formino alla vita.
Nazareth non poteva garantire nulla di buono al popolo di Israele, non essendo neppure contemplata dalla Scrittura ebraica e nessuno poteva mai immaginare che sorgesse profeta dalla Galilea (Gv 7, 52). Neppure poteva essere razionalmente accettabile che il Signore atteso dalle genti potesse nascere in condizioni di estrema povertà e che potesse rivelarsi innanzitutto ad una categoria sociale fra le più reiette e detestabili come quella dei pastori.
Ma a Dio nulla è impossibile, neanche superare le comuni concezioni umane di arrivismo e di presunzione; neppure prendere le distanze dalle nostre congetture di società perbenista e altolocata, rifuggendo il tronfio concetto sull'"uomo che conta". Oltre che nel creare il mondo e i suoi elementi, anche in questo consiste la divina onnipotenza: nel superare il fascino dell'attrattiva puramente umana. E nasce così povero con i poveri, abbandonato e perseguitato e solidale con quanti sperimentano l'abbandono.
La greppia di Betlemme è il luogo nel quale si congiungono tutte le situazioni di miseria e di fame del mondo, nel quale si compendia tutto l'essere meschino e precario della nostra umanità e nel quale anche l'altezzosità e la superbia non hanno ragione di esistere di fronte a un Dio Onnipotente Bambino che ferma il mondo e trattiene la società.
Nell'evento singolare di Betlemme Gesù assume in sé anche tutto il creato che a lui si sottomette e che da Lui viene ricapitolato (Ef 1, 10).
La grotta presso la quale accorrono i pastori è anche il luogo della comunione universale degli uomini, che diventano uno in Cristo Gesù (Rm). Davanti al Bambino non c'è infatti categoria di persone che possa vantare diritti sulle altre e scompaiono tutte le pretese assurde di vanagloria e di pretestuosità con cui siamo soliti innalzarci gli uni al di sopra degli altri. Tutti quanti siamo un solo corpo, un solo uomo, formiamo un'intera famiglia semplicemente perché davanti al Bambino tutti siamo Nessuno: siamo paragonabili al bue e all'asino che rappresentano semplicemente l'ignoranza e l'insufficienza di tutti i popoli davanti al Verbo incarnato (Ratzinger): tutti i popoli sono infatti buoi e asini. Ma tutti i popoli sono per ciò stesso accolti e riuniti dalla mangiatoia del Messia e diventano tutti un a sola comunione di persone.

Anche a noi viene rivolto lo stesso invito ad umiliarci e a disporci secondo buoni propositi di semplicità. Di fronte al fascino della Mangiatoia, che tutti ci attira e tutti seduce, vedendo il mistero della Promessa che Dio ha mantenuto nei nostri riguardi, non possiamo non sentirci poveri e precari e collocarci accanto a coloro che poveri lo sono nella triste condizione di miseria e di inopia assoluta.
Il fascino del Natale non può che spronarci a preferire la vita dimessa e la semplicità che esaltano molto più delle vane ricchezze; come pure a prediligere l'umiltà e il nascondimento che alla fine ottengono molti più riconoscimenti di quanti non ne garantiscano arroganza, superbia e presunzione. Il Natale ci invita all'umiltà e alla mitezza, alla predilezione della semplicità e della vita dimessa sull'esempio del Verbo Incarnato che nella greppia ha abbracciato per intero lo stile umile e precario di umanità. Allo stesso tempo, il mistero del Verbo Incarnato ci dischiude alla solidarietà e all'amore verso tutti, senza nessuna distinzione se non verso i miseri, gli indigenti, i dimenticati da questa società che in fondo non ha mutato aspetto rispetto dopo migliaia di anni: è sempre discriminatoria e ingiusta, proclive solamente ad esaltare i potenti e ad annientare i poveri e gli esclusi, riproponendo in tempi odierni le medesime discrepanze sociali fra ricchi e poveri, fra letterati e illetterati, "giusti" e "ingiusti". Il Bambino non si stanca di comunicarci la pedagogia della semplicità, che è all'origine della convivenza giusta ed equa fra tutti gli uomini, poiché nell'umiltà vi sono tutte le condizioni della pace e della giustizia.
Il Bambino di Betlemme ci renda sensibili al fascino di essa mentre lo contempliamo innocente ed eloquente nella sua estrema povertà ed indigenza.
BUON NATALE A TUTTI