Omelia (25-12-2013) |
dom Luigi Gioia |
Oggi è nato per voi il Salvatore Pur conoscendola bene, la pagina evangelica di questa notte continua ogni anno a sorprenderci. Se cominciamo a rifletterci sopra, troviamo dettagli che ci interrogano, come per esempio la frase dell'angelo ai pastori: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Chi proferisce questa frase non è il primo venuto, è un angelo sfolgorante di luce. Immaginiamoci al posto di questi pastori. Non è da poco ritrovarsi all'improvviso, mentre si è nella tenebra, nella notte, avvolti di luce. Poi vedere un angelo. Poi assistere all'arrivo di tutto l'esercito celeste, di miriadi di angeli che cantano in coro. La visione è grandiosa. Ed ancora più grandioso è quello che è annunciato. Ci si dice: "E' nato il Salvatore. E' nato il Messia. E' nato colui che cambierà la storia. E' nato il più grande personaggio che sia mai apparso sulla terra". La prima lettura descrive questo personaggio: è colui che spezza il giogo che ci opprime, che ci libera da qualsiasi forma una tale oppressione assuma nelle nostre vite. E' colui che elimina la guerra, che porta la pace, la gioia, la luce sulla terra. Se ripercorriamo i passaggi della Scrittura di questo giorno di Natale, siamo colpiti dalla frequenza con la quale appare la parola ‘pace' e i suoi sinonimi: la gioia ("gioite", "esultate"), e la luce. Possiamo contare 3 volte la parola ‘pace', 5 volte la gioia, 3 volte la luce. Poi di questo personaggio annunciato dall'angelo si dice che avrà un grande potere: Grande sarà il suo potere. E poi la seconda lettura ci dice che viene a restituirci la speranza, a liberarci dal peccato, ad educarci a vivere in amicizia con il Signore. Tutti questi dettagli descrivono dunque un grandissimo personaggio. Un grande annuncio dunque. Un evento epocale. Un personaggio eccezionale. Modalità straordinarie: un angelo, la luce, una miriade di angeli, un coro di angeli. Ma poi si arriva al segno ed allora si è posti di fronte ad un paradosso. Tutta questa grandezza, tutta questa eccezionalità, e poi: "Ecco il segno. Ecco come riconoscerete questo personaggio...". Non lo troverete in un palazzo di marmo pregiato. Non lo troverete in una culla d'oro, avvolto di porpora, come gli imperatori. Non lo troverete in casa del governatore Quirinio. Non lo troverete nel tempio di Gerusalemme. Non lo troverete neanche nella sicurezza di una casa di una famiglia benestante. No, il segno per riconoscerlo è questo: lo troverete in una mangiatoia, in una stalla, avvolto in fasce. Questa frase è fatta per metterci in discussione. Solo chi conosce veramente Dio può riconoscere questo segno. Se è questo il segno che ci è dato, vuol dire che dobbiamo veramente correggere la nostra immagine di Dio. Dobbiamo veramente capire chi è questo Dio che ci viene incontro in un modo così inaspettato. Cos'è che ci permette di riconoscere Dio in una precarietà assoluta come quella di questa nascita? Prima di tutto dobbiamo abbandonare l'immagine del presepe, che per noi è sintomo di intimità, che sveglia in noi buoni sentimenti. In realtà il presepe è un dramma. Immaginiamo cosa sia partorire in viaggio. L'incubo più grande che possa esistere per un marito e una moglie è che un parto avvenga in viaggio, anche con i mezzi odierni. L'incubo più grande è che possa avvenire in un luogo dove non c'è nessun servizio sanitario, dove non c'è più posto in nessun albergo, in nessun ostello, in nessun rifugio. Il presepe ci descrive una situazione di precarietà drammatica. Ma proprio questa precarietà è importante. Importante prima di tutto perché non è stata una precarietà accidentale, non è per sbaglio che Gesù è nato in questa precarietà. Non è un caso. Un tale precarietà l'ha voluta lui, l'ha voluta il Signore. Non è stata causata dalla cattiveria degli uomini. Riflettiamoci. La famiglia di Gesù non era povera. Giuseppe, il papà di Gesù, era un falegname - un mestiere rispettato e ben retribuito nella società di Israele dell'epoca. Possedevano dunque un certo benessere. Se Gesù fosse nato a casa, sarebbe stato partorito come ciascuno di noi oggi, con la garanzia di una buona assistenza, con acqua calda, un fuoco, l'aiuto di una levatrice. Invece il Signore della storia, il Padre di Gesù, ha disposto le cose in modo tale che ci fosse un censimento organizzato dall'imperatore proprio in occasione di questa nascita e che per questo censimento bisognasse andare nella propria città di origine. Un tale evento non avvenne per caso. Nulla sfugge al Signore. Vediamo le cose da un altro punto di vista: l'incarnazione è avvenuta perché lo Spirito Santo ha fecondato il grembo di Maria. Bastava che lo Spirito Santo fecondasse il grembo di Maria un mese dopo, e Gesù sarebbe nato a casa. La precarietà di questa nascita dunque è stato voluta. L'ha voluta il Signore. Ricordo, prima di entrare in monastero, il presepe vivente nel mio paese di origine, in Sud Italia. Un anno impersonai uno di questi albergatori che dicevano di no a Maria e a Giuseppe. Nella nostra immaginazione questi albergatori sono un po' cattivi, perché non accolgono una donna incinta. Ma mettiamoci nei loro panni: vi era un censimento in corso, migliaia di persone in viaggio. Gli alberghi, gli ostelli erano stracolmi: come fare ad accogliere ancora una famiglia? Non potevano fare altrimenti. Se Gesù è nato in una mangiatoia non è stato per colpa degli uomini, ma per volontà di Dio. Infine, i primi ai quali fu annunciata questa nascita erano persone che a loro volta dormivano fuori, che erano al freddo, che in quella notte si trovavano fuori perché dovevano lavorare, dovevano sorvegliare le pecore - persone dunque che vivevano anch'esse una forma di precarietà. E' come se questo segno potesse essere letto solo da chi conosce questa stessa precarietà, questa stessa insicurezza, questa stessa emarginazione. Dove siamo noi allora in questo vangelo? Credo si possa dire che in esso noi siamo i pastori. Ciascuno di noi - e questo lo si percepisce quando si passa il pomeriggio a confessare - ciascuno di noi vive in un modo o nell'altro una forma di precarietà. Ci sono le precarietà economiche delle quali siamo tanto preoccupati in questo momento; difficoltà dovute al lavoro, alla crisi. C'è la precarietà di chi è lontano dalla propria patria, senza sicurezza per il domani. C'è la precarietà così dolorosa di coloro che sono nelle prigioni, di coloro che questa notte sono negli ospedali, magari in un hospice, aspettando la morte. C'è la precarietà dei cristiani perseguitati in tante, troppe parti del mondo. Poi c'è la precarietà delle persone che si sono separate o si stanno separando, che vivono una crisi nella loro relazione, per le quali il Natale è il giorno più triste dell'anno. Il Natale, che è il giorno più bello dell'anno quando la famiglia va bene, diventa il giorno più triste di tutti quando la famiglia è divisa. C'è la precarietà di chi è solo, di chi ha il cuore ferito per un lutto, di chi ha rabbia e incomprensione nel cuore perché non riesce a perdonare, di chi ha vissuto qualcosa di doloroso. Queste sono le forme di precarietà che viviamo. E potremmo continuare all'infinito. La precarietà ci raggiunge tutti, in un modo o nell'altro, in un momento o nell'altro della vita. Fa parte della nostra condizione sulla terra. Impossibile sfuggirle. Ed ecco allora il segno. Ecco il Vangelo, la Buona Novella di questa sera: questa precarietà, questa tenebra -perché la precarietà è una forma di tenebra- può improvvisamente essere squarciata da una luce, una gioia, una pace completamente inaspettate. Quante volte l'ho visto! Delle tristezze, dei dolori profondi, delle chiusure che si sono prolungate a volte per anni, ad un tratto sono invase dalla luce, sono invase dalla pace. E tutto cambia. Qualcosa scatta nel cuore. La precarietà, il bisogno, la crisi non sono necessariamente una maledizione, non sono necessariamente qualcosa da subire. Ci insegnano l'umiltà. Quando tutto va bene nella vita, diventiamo autosufficienti, presuntuosi, chiusi, non capiamo più il dolore degli altri. La precarietà, il bisogno, la crisi ci aprono gli occhi alle sofferenze degli altri. Ci insegnano la compassione, la capacità di soffrire con gli altri, di sentire il dolore degli altri. Solo chi sente dal di dentro il dolore degli altri, sa portare una parola di consolazione. La precarietà, il bisogno, la crisi ci liberano dai nostri egoismi. Anche a noi stasera è dato proprio questo segno. Dove troveremo il Signore? Dove andrete voi stasera, stanotte, domani, a trovare il Signore? Cercatelo lì dove c'è sofferenza nella vostra vita. Cercatelo lì dove c'è precarietà nella vostra vita. Cercatelo dove c'è povertà. Cercatelo in quel crogiuolo che è causa di tristezza, di dolore per voi. Cercatelo in quella preoccupazione o quell'ansietà che non vi fa dormire. Cercatelo in quella paura del domani che proviamo tutti in un momento o l'altro della nostra vita. Cercate il Signore proprio in quella tristezza che viene quando non si crede più all'amore. Cercatelo proprio in quella solitudine che viene dall'essere abbandonati e a volte traditi da chi si amava. E' proprio in queste ferite, in queste povertà, in queste chiusure, in queste forme di precarietà che il Signore viene a visitarci. Questo è il segno. Non cerchiamo il Signore altrove. Non cerchiamolo nei palazzi. Cerchiamolo nella mangiatoia. Non cerchiamolo nel benessere, un benessere apparente, di superficie. E' lì dove soffriamo che il Signore ci visita per portarci la pace, la luce e la gioia. Natale ci tocca talmente il cuore perché ci restituisce la speranza. Qualunque cosa stia succedendo, qualcosa vibra nel nostro cuore, si muove una speranza: il Signore è con me. Il Signore è vicino a me. Il Signore non è in cielo, ma è proprio qui dove sto soffrendo, magari dove sto morendo. Dove mi sento solo. Dove mi sento abbandonato. Dove vivo la tentazione di cedere alla disperazione. Apriamoci a questa speranza e poi diventiamone gli strumenti per tutte le persone che incontriamo nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nel nostro lavoro. |