Omelia (25-12-2013) |
mons. Vincenzo Paglia |
Natale del Signore Ancora una volta siamo qui convocati per celebrare il Natale del Signore. L'evento della nascita di Gesù avvenuta una volta per tutte - duemila anni fa, circa, si rende ora presente - in modo misterioso, ma reale, attraverso la Liturgia della Chiesa, in particolare mediante il sacramento dell'Eucaristia. La Parola di Dio che abbiamo ascoltato - come sempre - ci offre la chiave di lettura del «mistero», che stanotte (oggi) ci coinvolge e interpella, a fondo, la nostra vita in qualunque stato si esprima e qualunque età abbia raggiunto: l'anziano come il giovane, il prete come il laico, la persona consacrata come quella sposata, oggi - che lo si voglia o no - chiunque è messo di fronte all'«avvenimento» che ha dato una spina dorsale alla storia dell'umanità. Annunciare il Natale, infatti, significa affermare che Dio, attraverso il Verbo fatto carne, ha pronunciato per noi la sua ultima parola, quella definitiva: una parola profonda, bella, chiarificatrice e decisiva, perché è il «sì» di Dio al matrimonio con l'umanità, dove l'indissolubilità e la fecondità sono garantite da un patto di stabilità, che ha Dio stesso per garante. L'araldo della Liturgia del Natale è il profeta Isaia: nella Messa della notte ci ha detto che il popolo immerso nelle tenebre «vide una grande luce» (9,1); nella Messa dell'aurora, annuncia l'arrivo del Salvatore, con la sua ricompensa (62,11); nella Messa del giorno, mette in evidenza il messaggero che porta ai deportati una buona notizia: il Signore ci ha riscattati dalla schiavitù e «i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio» (52,10). La sintesi di questo annuncio sta nel nome stesso di Gesù: il Salvatore. È chiaro che l'uomo, con tuta la sua intraprendenza, non può salvarsi da solo. Quando pretende di fare di testa sua, combina solo guai, perché finisce per prevalere in lui lo spessore del suo egoismo, che si dipana nei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia la classica formula del catechismo antico, che sintetizza il lungo elenco delle opere della carne, presentato da Paolo ai Galati (5,19-21). Gesù dunque è nato per salvarci dal male, cioè dal peccato, che genera in noi la morte. Gesù, è apparso sulla terra non per caso, ma per dare un senso alla vita che, oltre la morte, ha un futuro, dove ciascuno può trovare la piena realizzazione di sé. Per questo il Natale ci rivela l'amore di Dio per noi: Dio che si fa «condiscendente», cioè scende e sta con noi. I Padri greci chiamavano questo mistero "synkatabasis". Di fronte a questo mistero - che è segno di contraddizione - la società si spacca in due: coloro che hanno compreso il senso del Natale e lo vivono nella gioia vera, una gioia religiosa, una gioia che porta luce e pace, perché è la gioia di Dio; ci sono coloro, invece, che confondono la gioia del Natale con l'allegria mondana, perché di fronte al mistero si bloccano e chiudano le saracinesche del loro spirito, per rimanere di un mondo piccolo, che si accontenta delle luci artificiali e di quanto offre il mercato umano: per certuni il Natale, molto spesso, genera la noia, anziché la gioia. Allora c'è qualcosa che non funziona: senza la fede l'uomo si perde. La fede - lo ha scritto San Paolo a Tito, ci dice che in questo mondo «è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l'empietà e a vivere con sobrietà, in attesa della beata speranza», cioè dell'incontro con «il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Cf Te 2,11-13). La fede dunque non è un rifugio per gli sprovveduti o un talismano da nascondere nelle pieghe cauteriate della nostra coscienza. Essa attira, dentro il presente, il futuro: da quando Cristo - vero Dio e vero uomo - è entrato nella storia, il tempo è diventato una dimensione di Dio e la fede - dice Tommaso d'Aquino è un «habitus», una costante disposizione dell'animo, che permette l'innesto della vita eterna in noi, mediante l'ascolto della Parola di Dio e la celebrazione dei Sacramenti, in particolare dell'Eucaristia. La fede dunque ha una forte rilevanza per la vita personale e sociale. Se vogliamo guardare in faccia la realtà del nostro mondo occidentale vediamo che le ragioni della sua crisi sono soprattutto due: 1) la secolarizzazione con il conseguente individualismo utilitarista: senza Dio è scomparsa l'etica della responsabilità (Weber) anche nei paesi dell'antica riforma; 2) il ruolo della politica: senza Dio anche la democrazia cade nella trappola del potere, a scapito del bene comune. Essa deve reimparare dal Vangelo: "dare a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare". Come diceva un illuminato docente (il Prof. Naso): "Non prendetevela con Dio se Cesare scappa con la cassa". Oggi si può aggiungere che non è colpa di Dio se in parlamento prevalgono le lobby anziché le ragioni del bene comune. Purtroppo nell'agone socio-politico italiano ed europeo prevale sempre più l'emergere di un progetto di vita al di fuori di Dio, nella persuasione che, per garantire la laicità della democrazia, la fede vada relegata nell'intimo della persona, dimenticando che l'autentica laicità ha radici cristiane e che il vero laico trova nell'ispirazione cattolica (cioè "secondo il tutto") non solo una verifica della propria identità, ma anche il proprium da porre sulla bilancia delle decisioni democratiche. Di fatto la separazione tra fede e ragione è un «dramma», perché ha distrutto la capacità di raggiungere le più alte forme del ragionamento (Cf. Fides et ratio, n.25). In altre parole, per l'oscuramento della ragione non sostenuta dalla fede, l'uomo è insidiato nella sua dignità e nella sua capacità di raggiungere la piena maturità: le fantasie genetiche, il basso indice di natalità, il disprezzo della vita umana, la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell'istituto della famiglia, rivelano l'assenza di una educazione al senso della vita, che costringe le nuove generazioni a brancolare nel buio di una «libertà senza verità», e impedisce loro di sperimentare la forza trasformante del vero amore. Oggi, di fronte ai grandi mutamenti planetari, le ideologie sono in crisi, ma pretendono di conservare il loro potere contrattuale. D'altra parte, l'Europa, fatica ad elaborare un nuovo pensiero critico: ne aveva uno, in passato, quello prodotto dal cristianesimo e che le aveva dato un volto presentabile, (André Frossard) ma ora si sta facendo di tutto per rottamarlo. Tutto ciò è frutto di un pensiero anemico che ha sostituito il bene con i valori: quando un bene viene chiamato "valore", lo si devalorizza e l'equivalenza dei valori genera il "relativismo". Così non si può andare avanti! Il Natale 2013 ci dice che Dio non si è stancato di noi, anche se la cultura dominante - non la maggioranza della gente - si è stancata di lui. Questa è la causa della nostra crisi a tutti i livelli, specialmente di quello economico e morale. Allora bisogna "ripartire da Cristo", cioè dalla Verità - come scrive il filosofo francese Remì Brague - perché solo la Verità, che si è resa visibile in Gesù Cristo, ci rende veramente liberi, soprattutto verso le nostre passioni, ma soprattutto per riscrivere le nostre regole di vita. |