Omelia (02-02-2014) |
don Alberto Brignoli |
Nunc dimittis... Quanto dev'essere faticoso, a volte, dover vivere fino alla morte. Finché si è giovani, tutto questo pare assurdo: vivere non è una fatica, vivere è una gioia, è una grazia, è un'opportunità nuova ogni giorno, è la possibilità quotidiana di fare nuove esperienze, di costruire qualcosa di grande. Poi però il tempo passa, molti sogni stentano a farsi realtà, le esperienze negative influiscono sulle nostre scelte, e si resta disincantati di fronte alle opportunità che ci si presentano dinnanzi. Arriva un momento in cui addirittura si smette di provare esperienze nuove, ci si accomoda su ciò che si ha, ci si conforma con il poco o tanto che si ha a disposizione, e invece di "navigare al largo" si tirano i remi in barca e si cerca quantomeno di non perdere di vista la riva. Si pesca a poca distanza dalle altre barche, e in caso di maltempo - la salute che inizia a fare scherzi - si corre ai ripari raggiungendo rapidamente il molo e mettendo in salvo lo scafo... Se la giovinezza è l'età della vita in cui si vuole gettare lo sguardo su tutto e su qualsiasi cosa, raggiunta la piena maturità umana si smette di guardarsi intorno e si fissa lo sguardo sugli obiettivi che si vogliono (spesso "si devono") raggiungere: pochi, concreti, ben definiti e soprattutto poco onerosi, perché si diviene accorti, e allora - soprattutto negli affari - ci si vuole veder chiaro, prima che arrivi l'età finale in cui si fatica anche a vedere, rischiando di sbattere la testa contro il muro proprio perché gli occhi vedono più ombre che luci. Non si vede l'ora che esca la parola "fine" su questo palcoscenico della vita, che a un certo punto non fa' che proporre spettacoli poco esaltanti da vedere, nonostante ci si affanni a coprire in maniera abile il passaggio degli anni, soprattutto sulla fronte e intorno agli occhi. Questi occhi che - spesso per diverse ore durante la giornata - sono pieni di lacrime più che di luce. A meno che... A meno che ci si attenda ancora qualcosa dalla vita, magari un po' di felicità, magari un po' di consolazione... magari si sta veramente aspettando la Consolazione, quella vera, certo, quella che ti fa sentire in compagnia del sole e della sua luce, quella che ti fa avvicinare a chi è solo per stare con lui. Ma per fare questo, per attendere la con-solazione occorre essere uomini "giusti e pii", retti e pietosi, onesti e pieni di attenzione verso gli altri, forti, saggi, intelligenti, attenti, profondi... insomma con lo Spirito Santo sulla testa. Come Simeone, talmente aperto all'azione dello Spirito, talmente accorto e attento ai segni dei tempi, talmente assetato di con-solazione che lo Spirito Santo gli aveva annunziato che avrebbe visto la morte. Come tutti, del resto. Ma prima avrebbe dovuto continuare a guardare, ad aprire gli occhi, a non fissarsi sulle cose, a muovere lo sguardo. Perché così, e solo così, un giorno lui sarebbe stato "mosso": mosso dallo Spirito verso il tempio, casa e luogo della presenza di Dio, perché i suoi occhi potessero vedere, prima della morte, la presenza di Dio, la casa di Dio in mezzo agli uomini, il luogo privilegiato, il Consacrato, il "Cristo del Signore" nella storia. Simeone non riscatta una vita disillusa, obsoleta, ovvia e affaticata con un gesto finale che sa di gesto di grazia o di miracolo; Simeone porta a compimento una vita di giustizia e di pietà tenendo aperti gli occhi sulla grazia di Dio fino all'ultimo istante. E Dio lo premia. Dio non fa miracoli di redenzione riscattando le persone all'ultimo istante con una conversione lampo; Dio mostra la sua salvezza a chi non smette mai, mai, di tenere aperti gli occhi sul mondo, sulla bellezza della vita, sullo stupore di un dono, sulla giustizia e sulla pietà, sulla Parola che salva. Quella Parola secondo la quale Simeone può implorare la morte, non per disperazione, ma come compimento della Salvezza da lui finalmente contemplata: "Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua Parola, perché i miei occhi han visto la tua salvezza". E nessuno di noi ha motivo di dubitare che Dio gliel'abbia concesso in dono, anche se il Vangelo esplicitamente non lo dice. Anzi, il Vangelo fa uscire di scena Simeone con qualcosa che certamente non lo mette in una luce brillante: profetizza il male e una vita di dolori a una giovane madre entusiasta e riconoscente per il dono della maternità. Ma questa è la giustizia di Simeone: prendere in braccio il Bambino, lodare Dio, chiedere la fine della propria esistenza in nome della fedeltà a lui, e fare immediatamente chiarezza intorno alle cose di Dio, che vanno rivelate insieme ai pensieri di molti cuori. D'altronde, Simeone ha preso tra le sue mani la Luce (come noi, quest'oggi, con il rito della Benedizione delle Candele) non certo per metterla sotto il tavolo, ma perché faccia luce a tutti coloro che la riceveranno, caduta e risurrezione al tempo stesso. Rovina o salvezza: da cosa dipende? Questione di occhi; di occhi limpidi e aperti alla grazia, sempre, senza stancarsi, notte e giorno, tra preghiere, servizi e digiuni, come Anna, l'ottantaquattrenne profetessa che, vedova, simpaticamente vedremmo volentieri compagna di vita di Simeone. Compagna, sì, di Simeone, ma nella lode. Ora possiamo davvero chiudere il sipario, sul palcoscenico di queste due attempate e gloriose storie di fedeltà. I loro occhi non hanno mai smesso di cercare Dio. E ogni notte, la Chiesa, da secoli, li indica modello di fedeltà con le parole di lui: "Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua Parola...". |