Omelia (18-04-2014) |
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COMMENTO ALLE LETTURE Commento a cura di don Nazzareno Marconi Al centro delle letture della Azione liturgica del Venerdì Santo c'è la Passione del Signore Gesù secondo Giovanni, la Chiesa propone ad ogni fedele di meditare questo ampio testo denso di simbologia e teologia. Offriamo una breve scheda che può aiutare a fare questa contemplazione orante. La prima cosa che colpisce l'attento lettore del vangelo è l'attenzione che Gesù dedica alla morte ed alla sua morte in particolare. Per certi versi tutto il vangelo di Giovanni è una lunga ed organica preparazione di questo momento centrale: "quando Gesù sarà elevato da terra". Scorrendo i 4 vangeli alla ricerca di quando Gesù parla delle sua morte ho trovato almeno 25 occasioni in cui Gesù si riferisce esplicitamente alla sua morte. "Il Figlio dell'Uomo sta per essere consegnato... C'è un battesimo che devo ricevere, e come sono angosciato finché non lo abbia ricevuto... Il Figlio dell'Uomo resterà tre giorni nel cuore della terra... Allora lo prenderanno e lo condanneranno a morte... Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere... Bisogna che il Figlio dell'Uomo sia Innalzato... Io vado da Colui che mi ha mandato... Se il chicco di grano non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto... Per poco tempo la luce è con voi... Il mondo non mi vedrà più... Lascio di nuovo il mondo... Io non sono più nel mondo..." La morte di croce per Gesù, dice Giovanni in modo estremamente esplicito, non è stato "un incidente di percorso" imprevisto ed inatteso. Gesù guarda la passione e la morte da lontano e si prepara a viverle. Non è fuggito spaventato, non ha chiuso gli occhi censurando mentalmente la sofferenza e la morte che lo attendevano. In questo già ci indica una strada che per certi versi scorre contro corrente, nei confronti del nostro modo di vivere. Una delle regole non scritte, ma non per questo meno ferree della comunicazione pubblicitaria moderna, è che nessuna frase e nessuna immagine deve richiamare l'idea della morte e della sofferenza, l'unico tabù che la pubblicità moderna si impone è il discorso sulla morte. Gesù invece non sfugge, ma affronta il problema della sofferenza e della morte, con grande rispetto per tutto il tragico senso di assurdità, che prende l'uomo di fronte a questo apparente "errore" del Creatore. Contrariamente ad una sensazione che la lettura della passione in Giovanni può indurre, Gesù non è l'eroe Western che va al duello con il sorriso sulle labbra, né lo stoico che si fa forza contro la paura. Scriveva il Card Martini in un libro degli anni '80, Gli esercizi spirituali secondo Giovanni: «A me pare che l'uomo cosiddetto saggio, quando cerca di non svicolare di fronte al tema della morte, ma la affronta nella sua realtà esistenziale, istintivamente tende a rifugiarsi in un atteggiamento Stoico, cioè a rendersi padrone delle emozioni, a dominare le paure, a fare il viso coraggioso, a guardarla in faccia, la morte. Gesù non fa così. Gesù ha anche paura della morte e lo mostra nella sua agonia. Semmai Gesù la guarda in faccia come parte di un cammino di senso infinitamente più grande. La morte è dunque per Gesù una tappa, un passaggio che porta alle estreme conseguenze la sua forza di Vita. Il suo amore si mostra senza limiti proprio di fronte alla morte, che non è un passaggio "anche", o "malgrado il quale", ma è un passaggio "nel quale" Gesù si esprime». Gesù giunge alla morte attraverso la vita, vi giunge con una vita coerente nel suo atteggiamento di fondo di fronte al dolore ed alla sua assurdità. E' la continuazione "nonostante ed attraverso" la morte di questo atteggiamento, che segna lo "stile" con cui Gesù vive la sua morte. Nella notte dell'ultima cena, celebrando la pasqua giudaica, Gesù ed i suoi discepoli celebrano e mangiano la prima Pasqua cristiana. Le parole di questa celebrazione che riecheggiano il ricordo della prima Pasqua sono Salvezza, Liberazione, Alleanza. I segni sono gli stessi, ma il significato è nuovo come nuova è l'Alleanza, la Liberazione, la Salvezza. Scrive Andrè Louf: C'era l'agnello pasquale, c'erano le spezie rituali, c'era il pane e il vino. Questi ultimi ci sono sempre, ma, da simboli che erano, si trasformano misteriosamente in una nuova realtà. Gesù dirà che il pane è ora il suo corpo ed il vino il suo sangue. Di colpo, anche l'agnello pasquale passa dalla apparenza alla realtà, perché è Gesù l'Agnello di Dio venuto a togliere i peccati del mondo, ed è suo il sangue sparso per tutti gli uomini. Usciamo dunque dalla prima pasqua che commemorava il primo Esodo che condusse il popolo eletto dall'Egitto alla terra promessa, e passiamo, dall'oggi al domani, dal giovedì al venerdì santo. Già celebriamo il nuovo esodo che Gesù sta per inaugurare nel suo sangue e che deve condurre il nuovo Popolo di Dio da questa terra al Padre. Questa è la cornice entro cui Gesù invita i discepoli a vedere la sua morte in croce, una morte che fonda in pienezza l'alleanza, il desiderio intenso di Dio di salvare, di liberare l'uomo gratuitamente, senza chiedere nulla, per puro amore, per essere fedele fino in fondo a quel patto di amore, a quell'Alleanza con cui Dio ha voluto liberamente legarsi a noi. La morte in croce va letta dunque come segno estremo di fedeltà all'amore. Gesù continua coerentemente la sua vita fatta di dono d'amore senza condizioni e passa con questo atteggiamento anche l'estremo limite: la sofferenza e la morte. La croce di Gesù inaugura un cammino attraverso la sofferenza, lungo il quale non cessa mai, né l'amore di Dio per l'uomo né quello dell'uomo-Gesù per il Padre. Sembra l'attuazione meccanica e serena di un piano, la recitazione esatta di un copione già scritto, la cronaca piena di luce di una morte annunciata. Ma la presentazione evangelica non deve trarci in inganno. La croce resta un assurdo ed immenso abisso di tenebra: la creatura ha ucciso il suo creatore, dalla croce il deicidio sconvolge alle fondamenta l'universo. Luce e tenebra si mescolano di continuo in ogni discorso sulla croce di Gesù. Il trionfo di Cristo è iniziato con una sconfitta: la croce. La passione e la morte di Gesù, come ogni passione ed ogni dolore umano, non sono una necessità proposta e voluta da Dio, un sacrificio necessario per "soddisfare" la sua giustizia. Sono piuttosto una realtà che Dio permette entro un più grande piano di salvezza e redenzione. Gesù ha vissuto una esistenza profetica. Se è stato condannato a morte e giustiziato, è perché la sua vita, il suo messaggio, il suo insegnamento, le sue iniziative l'hanno messo in opposizione al potere costituito presente in Palestina ai suoi tempi, potere politico e religioso assieme. Gesù non è morto dunque per "soddisfare" un Dio giudice vendicativo, ma per venire in aiuto agli uomini, aiutarli a liberarsi da tutte le loro schiavitù. Questa missione Egli l'ha portata a termine fino al culmine, in una fedeltà totale al Padre ed in una costante solidarietà con gli uomini suoi fratelli. Attraverso questa fedeltà e questa solidarietà che l'hanno portato fino alla morte in croce, Gesù ha rinnovato l'Alleanza che Dio aveva stretto con il Popolo Eletto, aprendo definitivamente a tutti gli uomini la possibilità d'essere salvati. Si tratta di un mistero d'amore e non di un "Debito" da pagare. La croce diventa dunque il luogo privilegiato della lezione di Gesù sul "senso" che anche il dolore e la morte possono assumere, ma si tratta di una predica più ricca di pause riflessive e di silenzi che di chiare dimostrazioni e di dichiarazioni apodittiche. Gesù, come ogni vero uomo che ha toccato il fondo della sofferenza, vive di un profondo pudore silenzioso di fronte a questo mistero. Le parole tragiche e vere di alcuni uomini che hanno vissuto una profonda sofferenza in spirito di fede, di veri crocefissi dell'oggi ci possono aiutare a conquistare questo pudore pieno di rispetto. Descrive così la sofferenza un malato di cancro nel suo diario: " E' una sofferenza che ti entra dentro da tutte le parti. Che prende possesso di te in modo tale che gli appartieni completamente, ed ogni opposizione è inutile. E' questa la sofferenza che mi era piombata addosso a partire dal 13 febbraio. Non si riesce più a pensare, parlare, pregare. Si cerca disperatamente il proprio respiro, ci si concentra, si lotta per cercare di non gridare... non si è altro che sofferenza. Le lacrime mute mi scorrevano sul viso senza che potessi arrestarle. Le infermiere che mi assistevano rispettarono la mia pena in un modo tale che non dimenticherò mai. Non mi dicevano niente. Cosa avrebbero potuto dire senza ferirmi? Mi accudivano in assoluto silenzio. Ma ogni volta che lasciavano la mia camera, una semplice pressione della mano, uno sguardo affettuoso, mi parlavano, meglio di qualsiasi parola. Se sapessero quanto mi hanno confortato!". E sembra fargli eco nel testo già citato il Card Martini: «Dice in un celebre passo Paul Claudel: "Dio non è venuto a sopprimere la sofferenza. Non è neppure venuto a spiegarla, è venuto a riempirla della sua presenza". Io ritengo che la domanda: "Perché la sofferenza?" in un certo senso non ha risposta. Neanche Gesù vuole dare una risposta logica, dottrinale, quasi che uno poi sia tranquillo: "Ah, ho capito perché si ha il dolore". E basta: No. Ciò che insegna Gesù è un modo di vivere questa esperienza negativa e di per sé assurda, la quale non può essere che l'effetto di un'assurdità. Ed ecco allora il peccato: l'assurdità del peccato, della ribellione a Dio, di cui la morte è una manifestazione. Gesù non da una risposta logica, ma apre un cammino di senso. L'esperienza della Croce è appunto un cammino, non è un discorso; è un cammino percorrendo il quale uno ricupera la positività di un certo modo di essere». La croce di Cristo ci propone dunque un cammino, una scoperta di senso di cui abbiamo grandemente bisogno. Di fronte alla sofferenza ed alla morte siamo ancora più indifesi di quanto potevano esserlo gli uomini del secolo appena trascorso. Infatti il nostro relativismo, ci ha portato anche a relativizzare la fede nella scienza e nel progresso, come sicura risposta a questi problemi. Oggi nessuno si illude in una vittoria del progresso sulla radice della sofferenza e della morte. Produciamo palliativi sempre più sofisticati, cerchiamo sempre più di limitare il fenomeno, ma nessuno oggi attende più dalla scienza e dal progresso l'instaurazione dell'età dell'oro. Questo fatto è positivo dal punto di vista cristiano: è la fine di una idolatria, l'idolatria della scienza, della tecnica e del progresso, per ricondurre queste realtà nel loro ambito: mezzi utilissimi e benedetti posti nelle mani dell'uomo, ma nulla più di questo. La positività sta nel fatto che possiamo ripresentarci davanti all'uomo di oggi, ormai disilluso dal trovare spiegazioni che guardano solo alla terra, con la proposta di aprirsi ad uno sguardo più ampio e veritiero sul reale, che comprenda anche Dio e che proponga la fede come risposta umana adeguata alla Sua presenza. Non si tratta di un ritorno indietro, verso un mondo popolato di misteri che mescola fede e superstizione, né, tanto meno, di una fuga dalla reale tragicità del problema del dolore con una fede letta come "oppio dei malati"; ma del tentativo di affrontare il problema alla radice, in quella che chiamiamo un'ottica di fede: nell'ottica del messaggio sul senso della sofferenza che ci viene proposto dalla croce di Cristo. Annunciare la croce come proposta cristiana sul senso del vivere e quindi del morire; e sul senso della pienezza di vita, e quindi anche della crisi della vita, della malattia, non è un aspetto marginale della proposta cristiana. S.Paolo la pone addirittura al centro della predicazione, dell'evangelizzazione della Chiesa: "Noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, ma per colui che crede noi predichiamo Cristo: potenza di Dio e sapienza di Dio". (1Cor 1). Proporre la Croce di Cristo come itinerario di risposta al problema della sofferenza, non è affrontare una comoda scorciatoia, chi lo credesse dovrebbe riflettere al fatto che Paolo indica questa spiegazione come problematica. Essa è accolta come uno scandalo dai Giudei, e per rispettare il senso del parallelismo del testo, come un segno di una visione impotente di Dio. E' altresì accolta come una stoltezza dai pagani, una mancanza di quella saggezza che dovrebbe essere propria di Dio, il Signore del mondo. Il Dio che si propone e che propone questa risposta al problema del male, appare a prima vista un Dio che scandalizza e delude. Ma la sapienza muta che sgorga dalla contemplazione della croce come stile di cammino nella sofferenza ha una forza particolare che solo chi soffre sa comprendere ed apprezzare. A questa contemplazione ci chiama l'azione liturgica di oggi. |