Omelia (14-09-2014) |
mons. Roberto Brunelli |
Esaltiamo l'amore più grande Esaltazione della Santa Croce: la festa odierna, tanto importante da interrompere il normale ciclo delle domeniche,è importante ancor di più per i cristiani orientali, i quali la considerano quasi una seconda Pasqua. La festa ha avuto origine presso di loro, per ricordare la consacrazione, avvenuta a Gerusalemme l'anno 335, di quella che noi chiamiamo la basilica del Santo Sepolcro; qui si venerava il legno ritenuto la croce di Gesù, e quando nel 630 l'imperatore Eraclio riuscì a riportarvelo, vincendo i Persiani che l'avevano sottratto, al ricordo della consacrazione si aggiunse quello del felice ricupero. Da allora la festa si estese ai cristiani d'occidente. A parte le memorie storiche, esaltare la Santa Croce significa richiamare insieme i due volti della redenzione compiuta dall'Uomo-Dio: le celebrazioni pasquali li presentano distinti (il venerdì santo, la morte in croce; la domenica, la gloria della risurrezione), ma essi costituiscono un unico inscindibile mistero. Se Cristo non fosse risorto, ricorda San Paolo, vana sarebbe la nostra fede; ma è risorto perché prima era morto, e nel modo che si sa, e per le ragioni che si conoscono. Due volti dunque dell'unico mistero, come avevano ben compreso già i primi cristiani, i quali per secoli hanno cercato di esprimerlo raffigurando non il Crocifisso ma la sola croce, d'oro e impreziosita da gemme, o in vari altri modi adorna. Insomma esaltata, in quanto strumento e segno della salvezza, strumento e segno dell'amore più grande che si possa immaginare. Il passo dei vangeli proposto in questa festa, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, non è scelto tra i resoconti della Pasqua, pur se tutti e quattro gli evangelisti li presentano, e con abbondanza di particolari. Ne è stato scelto invece una sorta di preannuncio (Giovanni 3,13-17), fatto dallo stesso Gesù a Nicodemo, il notabile giudeo recatosi da lui di notte, in segreto. Da quel predicatore ambulante che tanto l'aveva impressionato da indurlo a rischiare l'ostracismo dei suoi pari pur di conoscerlo di persona, Nicodemo tra l'altro si sentì dire: "Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". Due premesse, per capire. "Figlio dell'uomo" è l'espressione con cui Gesù designa se stesso. E l'accenno al serpente di Mosè fa riferimento a un episodio dell'antico testamento (Numeri 21,4-9): quando il popolo d'Israele, invece di esprimere con la fedeltà a Dio la sua riconoscenza per essere stato liberato dalla schiavitù dell'Egitto, prese a lamentarsi del viaggio nel deserto, fu assalito da serpenti velenosi seminatori di morte; allora, impaurito e pentito chiese aiuto al condottiero, il quale per ordine del Signore innalzò su un'asta un serpente di rame: chiunque, dopo essere stato morso, lo avesse guardato, sarebbe rimasto vivo. Evidentemente quello che teneva in vita non era il manufatto sull'asta, ma la fede in Dio che così aveva disposto; ed è facile comprendere che quel singolo episodio assume un valore paradigmatico, passando dalla dimensione fisica a quella spirituale. A Gesù bastano le poche parole riportate, per manifestare le verità profonde che riguardano lui stesso e noi in rapporto a lui. Ricapitolando: Dio ha amato gli uomini, tanto da intervenire nel viaggio della loro vita, a liberarli dai morsi delle colpe che darebbero loro la morte spirituale; allo scopo ha mandato il suo Figlio, il quale, prima di tornare al cielo, sarà anche lui innalzato su un legno; chi guarda a lui con fede (cioè accoglie nella propria vita Colui che per amore ha donato la sua) evita la morte, anzi riceve da Dio la vita senza fine. |