Omelia (14-09-2014) |
don Alberto Brignoli |
Guardando dritto negli occhi la croce Oggi il calendario liturgico ci invita a fare una "pausa", nella celebrazione ordinaria della domenica, perché possiamo celebrare con la solennità che le è consona la festa della Esaltazione della Croce di Gesù. È una festa che ha origini antiche, legate pure ad alcune tradizioni che a noi oggi sembrano poco plausibili e prive di elementi di fede: due imperatori cristiani di Roma, Costantino ed Eraclio, in tempi abbastanza lontani tra di loro, videro nella devota invocazione alla Croce di Cristo il motivo della loro vittoria contro due eserciti nemici, per cui oggi celebriamo una festa che, almeno a livello storico, ha delle origini strane, legate a fenomeni bellici e di violenza. Ma ciò che più mi colpisce e mi sconvolge di questa festa non è tanto la sua origine storica, quanto l'oggetto stesso della devozione, ovvero il fatto che si invitino i fedeli ad "esaltare" la croce. Finché si tratta di esaltare la grandezza e la forza salvifica della Croce di Cristo, credo che nessuno di noi sia disposto a farsi da parte o a tirarsi indietro; ma se è vero - e non ho alcun dubbio nel credere che sia così - che la celebrazione del mistero di Cristo è pure celebrazione del mistero della nostra fede e della nostra esistenza, dentro di me sento già un po' più di resistenza nell'esaltare e celebrare le croci della nostra vita di ogni giorno. Siamo onesti: chi mai se la sente di "esaltare la propria croce quotidiana"? Chi si sente in grado di esaltare una vita fatta di stress e di frenesia, che ti porta a iniziare la giornata con malumore e a terminarla con stanchezza? Chi se la sente di esaltare un lavoro che non c'è o che quando c'è logora? Come si possono esaltare le preoccupazioni che ci vengono dalla vita di famiglia di ogni giorno? Chi mai è in grado di esaltare le sofferenze e i dolori legati a una malattia? Chi, in definitiva, se la sente di celebrare ed esaltare il mistero insondabile, eppure ineludibile, della morte? "Esaltare la croce", tanto quella di Cristo come le nostre: sembra un controsenso, in una società come la nostra che tende a eliminare i crocifissi dalla propria vista. Ogni tanto si sente parlare di politici che si danno da fare con ogni mezzo per eliminare i crocifissi dalle aule e dai luoghi pubblici adducendo la bieca giustificazione della volontà di "non offendere" e "rispettare" le sensibilità e i credi religiosi di tutti (anche chi, per contro, fa le battaglie per rimettere i crocifissi nei luoghi pubblici sono certo che lo fa più per ripicca politica che per autentiche motivazioni di fede e di rivalutazione della propria identità cristiana); poi, però, nessuno si preoccupa minimamente di rispettare, di non offendere le migliaia di crocifissi viventi, i milioni di persone che nel mondo sono perennemente attaccati alla croce, spesso senza nessuna prospettiva di salvezza! Quei "cristi" costantemente appesi alla croce, chi mai li rispetta e li venera? Malati terminali, senza tetto, barboni, affamati, esiliati, perseguitati, vittime della guerra e del razzismo, donne sfruttate, bambini privati di ogni diritto...e chi più ne ha, più ne metta: quante volte i nostri comportamenti tendono più a eliminarli dalla nostra vista (né più né meno come si fa con i crocifissi delle aule) che ad esaltarli, a rispettarli, a venerarli come presenza storica, qui e oggi, del Cristo in croce? Ci dà fastidio fermarci e guardarli negli occhi, vogliamo eliminarli e addirittura ci rivolgiamo a Dio perché ce ne liberi, senza prima dimenticarci di darne a lui la colpa, come gli israeliti nel deserto: "Perché ci avete fatto salire dall'Egitto per morire in questo deserto?". Come a dire: Perché ci obblighi a fare i conti ogni giorno con la croce e la morte, quando staremmo molto meglio rinchiusi nel nostro mondo di sicurezze? E poi, siccome la risposta di Dio non è quella da noi attesa, perché la croce e la morte non solo non se ne vanno, ma entrano a far parte anche della nostra esistenza, oltre che di quella degli altri, allora lo preghiamo: "Supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti", ovvero: Signore, molto meglio l'amarezza del deserto che una croce che ci uccide costantemente. E la risposta di Dio è sconcertante: ti salverai solo se avrai il coraggio di guardare in faccia alla croce. Gli israeliti nel deserto si salvavano se, morsi dai serpenti, guardavano l'asta con il serpente di bronzo innalzata da Mosè, prefigurazione dell'albero che, nella solitudine deserta del Golgota, molti secoli dopo innalzerà il "Figlio dell'Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna". A noi, oggi, è dato di salvarci dalla sofferenza e dalla morte se ad essa siamo capaci di guardare in faccia, negli occhi, non con atteggiamenti di sprezzante sfida, e nemmeno con disperata rassegnazione, ma con la speranza che viene dalla fede. Con quella speranza, cioè, che viene dalla consapevolezza che Dio non ha eliminato la morte dalla nostra vita, ma ha deciso liberamente (sì, perché almeno lui poteva benissimo farne a meno) di assumerla su di sé, di accompagnarci nel momento della solitudine, della sofferenza, della malattia, della morte, in definitiva della croce, e di farci sentire che quella croce non siamo più da soli a portarla. Questo è il senso dell'"esaltazione" della croce. Dio è consapevole delle croci dell'uomo, non perché sia lui a mandarcele, ma perché lui stesso, nella persona di suo Figlio Gesù, le ha provate sulla sua pelle. E continua a provarle, a portarle su di sé, in ogni uomo che soffre e che muore, soprattutto in chi soffre ingiustamente. Ed è proprio questa condivisione, questa "com-passione" con l'uomo e con le sue croci quotidiane che rappresentano per noi speranza e addirittura fonte di vita nuova. Perché da Cristo in poi, da quel tragico venerdì sul Golgota, l'uomo non è più da solo, nella sofferenza: Dio è con noi, ci accompagna, ci aiuta, ci conforta, ci redime, ci salva. E la festa di oggi ci dice addirittura che ci risolleva e ci esalta. |