Omelia (14-09-2014)
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COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Rocco Pezzimenti

1. La celebrazione odierna sembra essere fuori moda, anche se costituisce l'essenza stessa del Cristianesimo. Preparata dall'inizio dei tempi e ricordata dai profeti. Non a caso l'evangelista ripropone le stesse parole di Gesù: "E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell'uomo". Il paragone è semplice e non ammette equivoci anche perché gli apostoli non era la prima volta che lo sentivano risultandone scandalizzati. Eppure il Maestro, per fugare ogni dubbio e per farne capire l'importanza e la portata, aggiunge che questo deve avvenire "affinché ognuno che crede in lui abbia la vita eterna".
2. La Croce, con tutto il suo scandalo, diviene la discriminate per chi voglia salvarsi. Non è un fatto opinabile. Nostro Signore la presenta come la via della redenzione. Diventa con lui trono sul quale sarà incoronato della corona della vittoria. Diciamoci la verità, anche a noi, questo discorso il più delle volte sembra assurdo. Spesso proviamo a sostenerlo in modo poco convincente perché noi stessi lo affrontiamo distratti da troppi "se" e da tanti "ma". Forse, questo capita perché non riflettiamo sul vero senso della Croce, che è segno di amore, dell'incomprensibile amore di Dio che "ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l'unigenito".
3. Il simbolo della Croce è la vicenda stessa della Chiesa e dei suoi fedeli che solo per il tramite di essa possono salvarsi. Lo stesso Gesù aggiunge che riconoscere il valore salvifico del suo sacrificio è necessario "affinché ognuno che crede in Lui non perisca ma abbia la vita eterna". Scandalizzarsi della Croce, allora come oggi, è mettere in discussione la salvezza portata dal redentore. È dimenticare che "Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di Lui". La misura dell'amore di Dio è data dal sacrificio di sé. Non credere nella croce di Cristo è non capire, in alcuni casi rifiutare, l'amore di Dio.
4. Paolo canta questo prodigio della Croce operato da Gesù che, essendo Dio, "svuotò" quasi se stesso - il verbo annientare dice poco - prendendo forma di schiavo, che non è da intendere nella ristretta dimensione del sociale, ma che sta a significare che, "divenuto simile agli uomini", si sottopose alla morte, umiliandosi come più non si poteva. Divenne "obbediente fino alla morte, alla morte di Croce", per riparare con l'obbedienza al peccato originale della superbia.
5. Il paradosso continua: è proprio a seguito di questo obbrobrio che "Iddio lo esaltò e gli diede un nome che è al di sopra di ogni altro nome". Insomma, da qui si genera una nuova regalità, per questo l' Esaltazione della Santa Croce. Il suo nome diviene il nome del Re dei re "perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra, nell'inferno". Anche questo ci suona strano. Si parla di dimensioni che non sembrano riguardarci più. Forse perché non diamo il senso che richiede all'espressione che "Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre".