Omelia (14-09-2014) |
don Luca Garbinetto |
Un pellegrinaggio a rovescio Ci sono due modi per essere innalzati, nella vita. Il primo è quello che propone il mondo. Si tratta di mettercela tutta, per dare il massimo di sé e ottenere gli esiti migliori dalle proprie capacità e dai propri talenti, in modo da emergere sulla massa e farsi notare. È l'impegno di chi cerca il successo, la carriera, la realizzazione personale nel mostrarsi al di sopra della media, al di fuori della mediocrità, oltre la meschinità di chi non ha cartucce da sparare nell'arena della vita. Da una logica di meritocrazia sostanzialmente buona, se si fonda sull'apprezzamento delle risorse personali di ogni uomo, questo processo di autoaffermazione ha condotto oggi il mondo a una sorta di gara del ‘si salvi chi può': ognuno allineato sui blocchi di partenza, parte correndo all'impazzata con gli occhi puntati dritti in avanti o più facilmente concentrati sul proprio ombelico per raggiungere un ‘di più' fatto di apparenza e di vanagloria. Stremati da queste corse da centometristi, che toccano ogni ambito dell'esistenza - dal lavoro agli affetti, dalla sicurezza economica alle relazioni famigliari e amicali -, gli uomini e le donne di oggi si ritrovano a gettare la spugna, rifugiandosi in un isolamento mascherato di euforia e di sballo o nascondendosi in presunte relazioni vitalizzanti, ma filtrate dai nuovi marchingegni della comunicazione. La logica del ‘fai da te', sostenuta da una iniziale rivendicazione di autonomia, degrada progressivamente in uno scoramento esistenziale, in una drammatica esperienza di vuoto e di noia, in una voragine di non senso. Si pensava che la direzione fosse ‘verso l'alto': salire, salire, salire i gradini del successo, anche per raggiungere e uguagliare Dio. Ci si ritrova sbattuti in basso, caduti nella melma della depressione e della violenza verso se stessi, oltre che verso gli altri. Non è una lettura pessimista di tanti drammi interiori dell'uomo contemporaneo. Né si tratta di una considerazione che porta alla condanna. È piuttosto la sete di verità che ci porta a metterci in sintonia con tanto dolore, così come ha fatto il nostro Dio, che propone una maniera diversa per essere innalzati. La stessa che ha percorso Lui, per primo. ‘Nessuno mai - infatti - è salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo' (3, 13). Ecco il senso, ecco la direzione. Non dal basso verso l'alto, ma dall'alto verso il basso. Ecco la via che permette di vivere, e vivere in eterno, cioè in pienezza e nella gioia. La logica di Dio, e del Figlio suo che è anche Figlio dell'uomo - proprio perché esce da se stesso per ‘scendere' nella profondità debole dell'essere uomo -, inverte i passi, rovescia la prospettiva, capovolge le priorità. Parte dalla fine, per raggiungere, quasi inaspettatamente, l'obiettivo iniziale. Senza che mai la salita scardini il processo vitale della continua discesa negli abissi dell'umanità. Gesù, infatti, il Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, discende dal cielo della divinità, eliminando per sempre la separazione tra Dio e l'uomo, e si fa partecipe della fragilità esistenziale di ognuno di noi. Questo pellegrinaggio pasquale non si ferma ai confini della povertà più dura e lancinante: entra anche nel mistero della morte. Lo assume nel suo aspetto più incomprensibile e sconvolgente: è la morte di un delinquente, di un criminale, di un mascalzone quella che egli sceglie per sé sulla Croce. E allo stesso tempo è la morte di un innocente, condannato quando nel proprio cuore non trovava dimora nessuna condanna - pur umanamente plausibile, la condanna è incompatibile con le viscere di misericordia di Dio, Padre e Madre. Ecco la Croce: lo strumento della condanna, il patibolo su cui si inchiodano simbolicamente tutti gli orrori dell'umanità, abbraccia di fatto la più paradossale contraddizione, poiché il male e l'innocenza coesistono in una apparente sconfitta della giustizia. Ecco la Croce: gli opposti si toccano e si incrociano, come i due pali che la costituiscono e che si reggono ritti su un foro che penetra la terra. La Croce è l'abbassamento totale di Dio. È la discesa definitiva, fino agli inferi, e per questo mostra lo stile di Dio: un continuo scendere verso gli ultimi e i sepolti nelle viscere del dolore. È grazie a questa eterna discesa che Gesù, il Figlio, può comunicare la vita eterna a tutti, senza esclusioni. È grazie a questo abbassamento radicale - che sta, cioè, alla radice - che Egli può essere innalzato, affinché lo sguardo di tutti gli schiacciati della terra possa alzarsi e volgersi a Lui, incontrando un volto solidale che genera speranza. La Croce è la manifestazione della radice dell'amore: una totale e definitiva - eterna, appunto - condivisione del dolore del mondo, perché ‘chiunque crede in lui - cioè accoglie questa condivisione - non vada perduto, ma abbia la vita eterna' (3, 16). Non esiste altra via alla gioia. Chi si impunta a voler innalzarsi per essere visto e ammirato, chi svende la propria intimità e i propri tesori preziosi pur di ottenere uno sguardo, senza accorgersi di quanto gli occhi degli altri possano essere piuttosto di rapina che di ammirazione, smarrisce piano piano l'altezza della propria dignità umana. Fino a sotterrarsi nell'angoscia. Chi invece opta fiducioso per la via dell'abbassamento, praticando alla radice la scelta dell'ultimo posto in ogni occasione e in ogni relazione, alimentando la fantasia dell'amore con la contemplazione della Croce, sperimenta come frutto inatteso e come consolazione divina la frescura di un'acqua zampillante che riempie il cuore e fa sollevare pacifica la fronte. Paradosso glorioso: la Croce, segno e strumento di morte, messa in mostra per rivendicare l'autorità di abbattere l'ansia di esistere degli emarginati, si trasforma in segno e strumento di gloria, luce che irradia vita a chi vita non ha. Perché sulla Croce Lui, l'unico che è disceso dal cielo, ha potuto e voluto essere innalzato in solidarietà con i patimenti di tutti. |