Omelia (02-11-2014) |
don Alberto Brignoli |
Abbandonare la vita, abbandonarsi a Dio Se sapessimo che la morte è bella e luminosa come queste meravigliose giornate autunnali; se sapessimo che l'Aldilà ha un cielo così azzurro, un bosco così colorato, un prato così verde e un'acqua così cristallina che questo frammento di mondo intorno a noi oggi ci regala...nessuno di noi avrebbe paura di morire, e nessuno di noi si porrebbe angosciose e irrisolte domande sul domani. Ma purtroppo, non è così. Della morte, noi che viviamo, non sappiamo nulla, fino a quella prova contraria che si chiama "morire"; dell'Aldilà men che meno, perché nessuno è tornato da là per raccontarcelo. Fantastichiamo, immaginiamo, speriamo, nella fede crediamo...ma non sappiamo nulla. E siccome dall'Illuminismo - o forse prima - esiste la Ragione e siamo convinti che finché c'è lei non c'è posto per la Fede, allora quello che non possiamo conoscere per Ragione lo crediamo per Fede, come ottima alternativa. La Ragione, però, ci offre certezze, e quindi tranquillità e serenità; la Fede di certezze oggettive ne ha ben poche (sennò che Fede è?), e dove manca la certezza, manca la stabilità, la sicurezza, la tranquillità, la serenità...per cui, di fronte alla morte (unica cosa certa di tutta l'esistenza) e all'Aldilà (una totale incertezza), abbiamo un forte senso di instabilità, di insicurezza. Ed ecco l'angoscia: l'angoscia di sapere che c'è qualcosa che non sappiamo, l'angoscia di non poterlo avere sotto controllo, l'angoscia di scoprire che, per quanto ci si dia da fare, l'Aldilà rimane una terribile e tremenda incognita. E quindi? Forse è meglio non pensarci. L'aveva già detto Pascal, a metà del 1600: "Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai". Esattamente: basta non pensarci, e la vita diventa d'improvviso serena. Il problema però rimane: e purtroppo, costantemente, ritorna a importunarci. E ritorna anche con una certa frequenza, molto più di quanto pensiamo e sotto forme e nomi che, tra l'altro, ben conosciamo: la malattia, l'insuccesso, la fine di un progetto o di un amore, l'abbandono di una realtà nella quale ci sentivamo a nostro agio, la perdita di sicurezze economiche...sono tutti volti del limite, del nostro limite. Sono i volti della morte, che non sempre si presenta alla fine dell'esistenza, e non sempre diviene termine della nostra vita. Un lento e continuo morire delle cose ci fa sentire come "morti viventi": non certo come gli zombi del famoso film o come le maschere delle insulse feste di queste notti passate, ma come i morituri del mondo latino, incamminati verso l'inesorabile destino della fine che, seppur certo, tuttavia, non si sa quando verrà. Ecco perché temiamo la morte: perché la ignoriamo, perché non sappiamo come e quando sarà, perché non la teniamo in pugno, perché non la controlliamo noi; perché anche quando la pensiamo e la programmiamo, se è vero che a volte ci possiamo anche riuscire, è anche vero che l'istinto della vita è più forte e ci porta a fare marcia indietro (sono notizie di questi giorni, dagli Stati Uniti...). Già, perché quella vita che ci da fastidio e che spesso ci porta a dire "Ma quando finirà?", è sempre capace di stupirci, e soprattutto di fronte al pensiero della morte ci regala sprazzi di vitalità che neppure ci immaginiamo, come i tanti meravigliosi messaggi di gente che, di fronte alla vita che se ne va, esorta chi resta a sentire che la vita è bella. Ma per dare significato alla vita, e quindi alla morte, bisogna viverla intensamente, dal primo all'ultimo istante. Diceva già Seneca, filosofo latino contemporaneo di Cristo: "Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire". Il pensiero della morte, allora, e di ciò che la seguirà, non necessariamente è dramma e angoscia: può diventare scuola di vita perché ti dà la coscienza dell'incoscienza, ovvero del fatto che non di tutto possiamo essere coscienti, non di tutto possiamo sapere origine e fine, non di tutto abbiamo la spiegazione, e soprattutto - letto con gli occhi della fede - ci ricorda che Dio esiste, che per fortuna non siamo noi, e che per farci comprendere che lui c'è e ci accompagna nella vita, ha fatto la cosa più sconvolgente che un Dio possa fare: morire, come noi. Era forse l'unico modo a sua disposizione per farci risorgere con lui. La serenità con cui guardare la morte, allora, non può essere quella di chi non ci pensa o di chi la sbeffeggia, magari sfidandola; è la serenità dell'abbandono, come quella del bimbo nel grembo di una madre, dentro il quale ci sta tanto bene e non vorrebbe mai uscirne, ma sa già che quando lo dovrà fare, la mamma sarà lì ad accoglierlo tra le sue braccia, con amore. Termino con altre due citazioni, dopo quelle di due filosofi del passato. Si tratta di due santi del presente, uno - Paolo VI - da poco elevato alla gloria degli altari; l'altro - Carlo Maria Martini - santo perché testimone e profeta del nostro tempo. "Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire - dice Martini - quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio". E in quella meravigliosa pagina di spiritualità che fu il suo testamento, il Beato Paolo VI scriveva così: "Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce. Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita". |