Omelia (25-12-2014) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Giovanni 1,1-18 Questa notte ho provato a riflettere con i fedeli che affollavano la chiesa sul mistero di un Dio che sceglie di rivelarsi al mondo sotto le spoglie di un neonato... Il Vangelo di oggi, vera opera d'arte letteraria, uscita dalla penna e dal cuore di Giovanni, ci aiuta ad accostare il mistero del Natale da un punto di vista meno pittoresco forse, di minore impatto emotivo, ma certamente di spessore teologico incomparabilmente superiore. Tra i tanti aspetti meritevoli di attenzione, ve ne propongo due, che hanno a che vedere non tanto con la statura del Messia, quanto piuttosto con la nostra statura di figli di Dio e amici di Cristo. L'auspicio è che in occasione di questo Natale, assumiamo una maggiore consapevolezza di noi stessi, in rapporto alla fede. Come altre volte ho avuto modo di ricordare, la fede non soltanto ci introduce nel mistero di Dio, ma ci consente di fare verità su noi stessi. È infatti la fede che rende sommamente ragione della nostra dignità: creati ad immagine e somiglianza di Dio, è scritto nella Genesi; sì, ma che cosa significa? Il significato di questa definizione dell'uomo e della donna, ce l'ha rivelato il Verbo di Dio incarnandosi nel grembo purissimo di Maria e venendo alla luce, nelle fredde steppe di Betlem Dunque, la nostra relazione filiale con il Padre e quella amicale con il Figlio: la prima è esplicitamente dichiarata nel Vangelo di oggi, il Prologo di Giovanni, mentre la seconda è lo stesso Gesù che la annuncia ai Dodici, durante la cena di addio (cfr.Gv 15,15). La dignità di figli di Dio non è così facile da avvertire nella nostra esperienza terrena; siamo fondamentalmente convinti che quella di figli di Dio non sia proprio la nostra condizione presente; casomai quella futura, nel senso che la vivremo pienamente nella vita eterna, dopo aver varcato la soglia della morte; certo, a livello di concetto sappiamo che "fin d'ora siamo figli di Dio", è sempre Giovanni a dichiararlo nella sua prima Lettera, al cap.3; tuttavia, anche Giovanni precisa: tuttavia "ciò che saremo non è stato ancora pienamente rivelato". L'amicizia, invece, è una situazione nella quale, spero, tutti, almeno una volta ci siamo trovati attivamente coinvolti; mentre la figliolanza è un rapporto che non dipende da noi - il padre non possiamo scegliercelo, ma solo riconoscerlo -, l'amicizia è una relazione che nasce se e soltanto se lo consentiamo. Proprio qui sta la novità del Vangelo! Io sono sempre più convinto che la vera rivelazione, consista in queste parole del Maestro di Nazareth: "Non vi chiamo più servi, ma amici": questa è la novità! "Non più servi, ma amici": beh, non so se ci conveniva proprio conoscerla.... Provate a considerare la differenza che passa tra un rapporto di lavoro servile e una relazione affettiva: in antico l'istituto della schiavitù era per lo più finalizzato alle prestazioni lavorative - lo Statuto dei lavoratori non era ancora stato scritto...-. Lo schiavo non era solo il contadino, il pastore, l'addetto alle occupazioni più umili. Il Vangelo ci parla di amministratori ai quali un signore affida tutte le sue sostanze, i quali (amministratori) sono dei semplici servi; per di più, aggiunge il Signore, inutili. In antico alcuni matematici, addirittura alcuni filosofi, erano di estrazione servile... La condizione di servo era sostanzialmente tollerata anche dalle prime comunità cristiane; in linea di principio, non si sollevava alcuna obbiezione morale: san Pietro, nella sua prima lettera (cap.2) esorta i servi ad obbedire docilmente ai loro padroni. Nonostante il rigore della schiavitù - il padrone aveva diritto di vita e di morte sui servi - il rapporto servo/padrone era un (rapporto) do ut des: lo schiavo otteneva dal padrone vitto, alloggio e protezione. Senza un padrone, uno schiavo di nascita non godeva dei diritti civili. Quello che regolava le condizioni del rapporto era la legge; soprattutto per ciò che riguardava le prestazioni del servo, quasi nulla era lasciato alla libera discrezione: il servo era tenuto a svolgere il suo lavoro secondo i termini di legge, e il padrone era tenuto a retribuirlo. L'osservanza della legge era dunque il fondamento della situazione del servo. Il pio israelita era il perfetto osservante della legge di Mosè; talmente osservante, talmente perfetto che vantava pure dei meriti dinanzi a Dio. Essere amici del Signore è tutta un'altra storia! Certo, sarebbe un errore pensare che nell'amicizia non ci siano regole; tuttavia ciò che fa la differenza tra la relazione servile e quella amicale è proprio la gratuità del dono reciproco; un vero amico non tiene il registro di entrate/uscite, non ragiona in termini di diritti/doveri, non avanza pretese... Ripeto, come ogni relazione che si rispetti, anche l'amicizia possiede un codice di comportamento, ma ciò che rende l'amicizia diversa da ogni altro rapporto, ragion per cui Gesù sceglie l'amicizia come icona della relazione perfetta tra uomo e Dio, è la mutua donazione, fino al dono della vita. E la vita Gesù ce l'ha donata! Dal giorno in cui vide la luce, nei panni del bambino di Betlemme, fino al giorno in cui esalò l'ultimo respiro dall'alto della croce, sulla chiesa nascente rappresentata dalla madre e dal discepolo che Lui amava, Gesù si è donato sempre di più! Ora il Signore ci chiede di fare altrettanto: è questo l'aspetto problematico dell'amicizia con Dio: dare la vita a Lui così come Lui l'ha data a noi. Ogni stato di vita, ogni condizione sociale, ogni stagione dell'esistenza può essere l'occasione giusta, il momento giusto per dare la vita al Signore. Nostro malgrado, non è possibile donare la vita al Signore se non attraverso l'amore per gli altri uomini. Tutti desideriamo un rapporto diretto, immediato, totale e definitivo con il Signore; purtroppo non ci è possibile, finché siamo su questa terra. Era necessaria l'incarnazione perché lo capissimo: "Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi. Non c'è amore più grande, dare la vita per gli amici" (Cfr Gv 15). Ma sarà poi vero che l'amore per gli amici è la forma più alta dell'amore? Quanto alla nostra relazione con Cristo, certamente sì, e credo di averlo mostrato. Quanto alle nostre relazioni con gli altri uomini, c'è un amore più grande dell'amore per gli amici: è l'amore per i nemici. Anche per questo era necessaria l'incarnazione: che venisse Lui, Dio in persona, a rivelarci come si vive e come si muore per i nemici! Soltanto a questa condizione, che non si risponda al male (ricevuto) con altro male, ma con il bene, possiamo essere certi che il bene vince, e che il male ha i giorni contati. Buon Natale! |