Omelia (06-01-2015) |
don Alberto Brignoli |
Oro, incenso e mirra Sarà anche per via dei tre doni che offrirono al Bambino Gesù, oltre che per la tradizione trasmessaci dai Vangeli Apocrifi, che da sempre riteniamo che i Magi che vennero da oriente a Gerusalemme fossero tre, nonostante il Vangelo di Matteo che abbiamo letto non dica assolutamente nulla, al riguardo: e comunque, non è un problema di vitale importanza per la nostra fede, mentre mi pare molto interessante riflettere proprio su questi doni e su ciò che essi simboleggiano. I Magi, come ricorda san Leone Magno in uno dei suoi Discorsi, "offrono a Dio l'incenso, all'uomo la mirra, al re l'oro, consci di venerare nell'unità la divina e l'umana natura". E fin qui, nessuna difficoltà ad accettare e ad ammettere questo. Qualche difficoltà in più la possiamo avere se, alle persone e ai doni dei Magi, sostituiamo i nostri doni e la nostra persona. In altre parole, se oggi toccasse a noi offrire al Bambino Gesù oro, incenso e mirra, che cosa gli offriremmo? Un dono non può mai essere qualcosa di asettico, di scontato: deve rappresentare qualcosa di noi stessi, altrimenti non è un dono, ma un gesto formale e magari anche dovuto. Nulla di più brutto di un dono fatto "per forza"! Offrire a Dio in dono oro, incenso e mirra, come abbiamo ricordato, significa riconoscere la sua regalità sulla storia e sul mondo; significa onorarlo nella sua divinità, elevando a lui preghiere che salgano al cielo come incenso; significa non dimenticare la sua umanità, il suo corpo destinato alla sepoltura ma a cui l'unzione con la mirra (come allora si usava) conferisce incorruttibilità e quindi dignità in vista della resurrezione. Ma c'è un triplice rischio, in questi doni offerti al Dio fatto uomo, un rischio ancora molto attuale. Il rischio è quello di voler "dorare" Dio, "incensare" Dio e "imbalsamare" Dio per farne non oggetto di venerazione, quanto un oggetto da museo, bello, prezioso, dignitoso e pieno di ammirazione, ma pur sempre oggetto da museo, statico, inattivo, quasi privo di vita. Spesso, infatti, tendiamo ad arricchire in maniera esagerata tutto ciò che ci richiama la divinità, il nostro rapporto con il sacro. A volte, è proprio questione di ricchezze materiali, quando la Chiesa (quella universale e gerarchica, ma anche le nostre piccole chiese particolari) si sente talmente forte, potente, e ricca di mezzi materiali da potersi permettere di costruire, investire, commerciare, far fruttare i beni che ha a sua disposizione con la scusa accomodante del "dover mantenere" ciò che si ha. Nessuno dice che non dobbiamo procedere a restauri o a ristrutturazioni o a costruzioni di nuove strutture per l'utilizzo e il bene comune; ma questo va fatto sempre tenendo conto del contesto sociale e storico nel quale ci troviamo ad operare. Non si può arricchire Dio e le cose di Dio in una zona in cui la gente fa fatica a sopravvivere, in un paese in cui molta gente perde il posto di lavoro, in un periodo storico in cui la crisi impedisce a tutti di guardare serenamente e con dignità al proprio futuro. Ci sono gesti e scelte ecclesiali (e soprattutto - faccio mea culpa - ecclesiali) che da un punto di vista economico sono uno schiaffo alla povertà e all'indigenza. Questo oro, il Bambino Gesù non lo vuole. Anche quando offriamo incenso a Dio, possiamo correre il rischio di non vederlo come simbolo delle nostre preghiere che salgono a lui, ma come un modo per "nascondere" Dio dietro a una nube, per impedire agli altri (ma alla fine anche a noi stessi) di vederlo e di riconoscerlo. Spesso, infatti, riempiamo la nostra fede di gesti roboanti, di celebrazioni, di parole, di rituali e di apparati che nascondono l'essenza del messaggio evangelico, che ci allontanano dalla scoperta del senso della ritualità, dalla profondità della liturgia, dal contatto diretto con Dio nella preghiera. E magari impediamo agli altri di fare lo stesso, con la pretesa di avere l'esclusiva di Dio, di essere solo noi capaci ad interpretarlo nella maniera "originaria e genuina", negando la libertà di ogni credente di poter giungere a Dio attraverso strade che non siano quelle indicate da noi: un rischio che noi pastori corriamo maggiormente rispetto al resto del popolo di Dio, quando anche nella nostra pastorale facciamo - è proprio il caso di dirlo - "molto fumo e poco arrosto", molta apparenza e poca sostanza, e purtroppo impediamo agli altri di vedere Dio se non attraverso una nube d'incenso fatta tutt'altro che di preghiere. Ma questo incenso, il Bambino Gesù da noi non lo vuole. E sono altrettanto convinto che non voglia neppure essere unto con una mirra che, invece di preparare il corpo per la risurrezione, lo imbalsama e lo rende imperturbabile, statuario, incorruttibile, ma purtroppo lo pietrifica. Quando abbiamo la pretesa di aver trovato il nostro modo di vivere la fede e di renderlo eterno e immutabile; quando ci creiamo un'immagine fissa di Dio e la rinchiudiamo in una nicchia dalla quale la tiriamo fuori all'occorrenza per venerarla; quando riteniamo la nostra fede una certezza ormai acquisita e mai da rinnovare o da rimettere in cammino, sia pure con fatica, giorno dopo giorno, stiamo usando la mirra per imbalsamare definitivamente Dio e chiedergli di non darci più fastidio. Sì, perché un Dio che ci rimette in gioco, che ci obbliga a camminare, ad andare alla ricerca, a sperimentare nuove strade e nuovi cammini, ci dà fastidio: meglio un Dio statico, una volta scoperto il quale ci sentiamo a posto, lo imbalsamiamo e lo tiriamo fuori all'occorrenza, salvo poi prendercela con lui quando non fa quello che gli chiediamo. No, Dio non può essere imbalsamato: la mirra che offriamo al Bambino Gesù è per il suo corpo destinato certamente alla sepoltura, ma in vista della risurrezione, perché il Dio di Gesù Cristo è un Dio liberatore, che ci apre, che ci risuscita, che non si ferma al venerdì santo, ma ci fa trovare la sua tomba vuota il giorno dopo il sabato. Come uscire da questo "rischio" di offrire oro, incenso e mirra non graditi al Bambino Gesù? Restituendo all'Epifania il suo significato originario: quello di "manifestazione", quello in cui Dio manifesta la grandezza dell'Incarnazione a tutti i popoli, per cui la fede non può più essere vissuta come un fatto personale, privato, tra noi e il nostro Dio, al quale offriamo, soffocandolo, la ricchezza del nostro oro, la nebbia del nostro incenso, la staticità della nostra mirra. Offriamo invece a Dio, con questi doni, Colui che in questi doni è simboleggiato: il Cristo Re di una storia in continuo movimento, il Cristo Signore di una fede sempre in ricerca, il Cristo Uomo che cammina con gli uomini e li libera, aprendoli alla Resurrezione. Così ci prepariamo, oggi, ad accogliere l'Annuncio del giorno di Pasqua. |