Omelia (15-02-2015)
padre Gian Franco Scarpitta
Quale vera medicina?

Se c'è un film che mi ha fatto piangere per la rabbia e per l'amarezza, quello è stato "Risvegli" con Robert De Niro. Racconta la storia (purtroppo reale) di un giovane medico che dopo varie sperimentazioni scopre un farmaco capace di risvegliare diversi pazienti affetti di encefalite letargica, che per tanti anni erano nello stato vegetativo di torpore e di immobilità assoluta. Il portentoso farmaco li riabilita alla conoscenza e li rende tutti autosufficienti, capaci di iniziativa e di intraprendenza, ma quando cominciano a pretendere che i medici consentano loro di abbandonare il nosocomio per iniziare a vivere da liberi cittadini, di fronte a dinieghi e disapprovazioni si danno alla protesta e alla ribellione. Un po' alla volta il farmaco comincerà a perdere l'effetto di cui ci si era illusi, per cui ricadono nel torpore e nell'immobilità iniziali.
La conclusione del giovane medico è quella che nessun farmaco, per quanto grandioso ed efficace, sarà mai in grado di compensare la mancanza di rapporti umani e di considerazione delle VERE sofferenze dei pazienti e che in tantissimi casi un atto di amicizia e di vera vicinanza morale può fare anche molto più della scienza medica..
Intervenire sul dolore e sulla malattia non va fatto solamente in senso fisico. Verso gli ammalati occorre atteggiarsi con fare di premura, solidarietà, sforzandoci di adoperare soprattutto quella profonda umanità che infonde coraggio e speranza in una situazione lancinante e dolorosa, quale quella in cui versano soprattutto i soggetti colpiti da infermità grave e irreversibile. E' desolante (com'è capitato al sottoscritto) ascoltare le esperienze di parecchi medici o membri del personale para sanitario che raccontano di luoghi e di situazioni ospedaliere in cui i pazienti vengono considerati nient'altro che "numeri" o codici di catalogazione, senza che si rivolga nei loro confronti almeno un atto di benevolenza o una parola di attenzione e di conforto; non sono rari i casi in cui, da parte di certi infermieri, si comunica con il "tu" ai ricoverati di una certa età, a volte anche con grida e riprovevoli atti di scortesia.
In tanti paesi in via di sviluppo, complice anche l'assoluta inopia e la ristrettezza di adeguate strutture sanitarie, non pochi ospedali sono paragonabili perfino alle stalle visto che parecchi ammalati sono abbandonati a se stessi, ammonticchiati come biancheria su esili pagliericci dove si rivoltano gemendo dal dolore.
Nella situazione in cui è costretto a perseverare, soprattutto nei casi di grave malattia, il degente ha bisogno di sostegno morale ancor prima di cure mediche o di assistenza materiale; necessita di consolazione, di conforto e di vicinanza spirituale anche per rassicurarsi di non trovarsi solo e per avere chi gli incuta almeno la fiducia di poter giungere alla guarigione.
L'atteggiamento di Gesù nei confronti degli ammalati è quello del "farsi prossimo" a loro; il lui vi è la capacità di compatire infermità e patimenti d'animo (Eb 4, 15) e di condividere lo stato di chi è costretto a ingiuste atrocità, quale uomo dei dolori che conosce il soffrire (Is 53, 9). Egli si mostra solidale anche in forza del supplizio che lo attende, motivato dalla consapevolezza che esso sarà di sollievo e di riscatto delle infermità fisiche e morali di tutti.
Nei confronti di un malato di lebbra poi questa condivisione diventa ancora più esaltante, poiché egli si atteggia con un tratto del tutto opposto a quello che solitamente viene usato, nell'Antico Israele, nei confronti dei lebbrosi. Anche il sospetto di una piccolissima pustola di bianco sulla pelle era infatti motivo di condanna e di emarginazione agli occhi della società: la lebbra era infatti sinonimo di impurità e condannava chi ne era affetto ad eseguire umilianti pratiche di mortificazione per poi vivere lontano da tutti, fin quando il morbo non si fosse estinto. E anche dopo la guarigione si era tenuti ad osservare successive pratiche di purificazione davanti al Sacerdote. Il lebbroso era oggetto di disprezzo e di pregiudizio e anche la sua vicinanza poteva contaminare e trasmettere l'impurità medesima oltre che la malattia.
L'amore di Gesù nei confronti dei malati di lebbra, come pure di tutti coloro che soffrono di un'infermità fisica qualsiasi, lo sprona ad essere assolutamente indifferente verso una mentalità diffusa quale quella appena esposta e si mostra noncurante dei possibili (certi) commenti esecrativi della gente che lo vede avvicinare un "impuro" con disinvoltura. Il suo atteggiamento piuttosto è quello della confidenza e della familiarità assoluta, poiché il lebbroso, da lui contattato, avverte di trovarsi a proprio agio e di non essere più vittima di invettive e di pettegolezzi sociali. Il malcapitato che gli si pone davanti è certo di trovare in Gesù un confidente e un amico che lo tratta alla pari senza mostrare pregiudizi di sorta e che anzi manifesta nei suoi confronti una certa ammirazione. Infatti Gesù riscontra nel suo interlocutore la disponibilità a sottomettersi alla volontà di Dio, l'accettazione umile e disinteressata delle decisioni del Padre che agisce in Cristo suo Figlio, la buona disposizione ad accogliere qualunque esito di quel confronto, fosse pure quello contrastante con i suoi desideri personali. In parole povere Gesù ammira quel povero lebbroso perché nel pronunciare le parole "Se vuoi puoi purificarmi" manifesta una fede radicata e indiscussa, preceduta peraltro da una altrettanto edificante umiltà che porta il soggetto a considerarsi innanzitutto colpevole e poi bisognoso di purificazione, quindi di successiva guarigione. Dice infatti puoi purificarmi, non puoi guarirmi e la purificazione comporta soprattutto l'affrancamento dal peccato e la risoluzione dello stato di infermità spirituale. Egli riconoscendosi peccatore e umiliandosi con fede davanti al Figlio di Dio ottiene la guarigione morale accanto alla liberazione dal morbo fisico.
Come si diceva all'inizio Gesù si fa modello di vicinanza e di solidarietà superando un atteggiamento culturale che al giorno d'oggi potremmo definire da perbenisti borghesi, per il quale non ci si vuol compromettere con "l'impurità" di chi soffre il morbo sociale dell'emarginazione a motivo dell'aids o della droga e comunque non si considerano abbastanza le sofferenze degli altri come fossero proprie. Il suo agire è un invito alla solidarietà e all'attenzione sincera nei confronti di chi è costretto, a volte non per sua colpa, a soffrire un gravissimo malessere fisico per il quale si avverte il bisogno primario di rapporti umani che molto spesso hanno efficacia anche maggiore delle stesse cure mediche.