Omelia (15-02-2015)
mons. Roberto Brunelli
Dalla realtà al simbolo: c'è chi si autoesclude

"Il lebbroso porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro!' Sarà impuro finché durerà in lui il male; e impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento".
Queste parole angoscianti, comprese nella prima lettura di oggi (Levitico 13,45-46), fanno parte delle disposizioni date da Mosè agli ebrei in viaggio verso la terra promessa, e rimaste in vigore anche ai tempi di Gesù. Più volte i vangeli riferiscono di incontri di lui con uno o più lebbrosi, forse i più sventurati tra gli uomini: come se non bastasse l'essere colpiti da una malattia terribile che consuma, letteralmente, le carni, essi erano esclusi dalla vita comune, costretti a starsene fuori dai villaggi, vestiti di stracci, con l'obbligo di non avvicinare nessuno e anzi di gridare la loro condizione a chiunque inavvertitamente stesse per passare loro accanto. Simili condizioni erano in vigore anche presso altri popoli, lo furono anche dopo Gesù e in fondo non sono tanto cambiate tuttora, per i quindici milioni di uomini che nel mondo patiscono questo male. L'isolamento, l'emarginazione sociale, è la sorte riservata ai portatori di malattie contagiose, che solo da relativamente poco tempo sono oggetto di cure (è doveroso, in proposito, ricordare quanto per i lebbrosi si prodighino i missionari). Ma nell'antico popolo ebraico il ribrezzo per i lebbrosi non era motivato soltanto dalla paura del contagio; la formula dell'avvertimento cui erano tenuti, "Io sono impuro", e il fatto che i rarissimi guariti spontaneamente dovessero offrire un sacrificio di espiazione, lasciano intendere che il male fisico, qualunque malattia o menomazione, era considerato il segno visibile del male spirituale, il peccato. Un esempio esplicito di tale convinzione: quando Gesù incontra il cieco nato (Giovanni 9), gli astanti gli chiedono: "Maestro, se quest'uomo è nato cieco, è perché ha peccato lui, o i suoi genitori?".
Il brano evangelico di oggi (Marco 1,40-45) descrive l'incontro di Gesù con un lebbroso, il quale lo supplica in ginocchio con parole ("Se vuoi, puoi purificarmi!") che manifestano la sua fiducia in quest'uomo di cui ha sentito parlare per le guarigioni che va compiendo, ma nel contempo parole che sottintendono la convinzione allora corrente, del male fisico come espressivo dell'impurità davanti a Dio. Al cospetto del lebbroso Gesù non solo non si allontana precipitosamente da lui, come avrebbe fatto chiunque altro all'epoca, ma anzi "ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò": gesto inaudito, quel toccare volutamente un lebbroso; un gesto che basterebbe da solo ad esprimere i sentimenti con cui egli guardava agli sventurati. Ma c'è di più: accoglie la supplica, e gli comanda di adempiere quanto la legge allora prescriveva: "Va' a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto". Si legge in trasparenza quello che in altri episodi sarà esplicito, il potere e la volontà di Gesù di perdonare i peccati.
Commentando questo e analoghi episodi del vangelo, già i Padri della Chiesa ne hanno tratto un insegnamento: la lebbra non è causata dal peccato, ma ne è un chiaro quanto terribile simbolo. Il peccato produce sul piano spirituale effetti simili a quelli della lebbra sul piano fisico: consuma l'uomo "dentro" e, anche se non si vede, lo esclude dalla comunità, lo priva dei benefici di chi vive in comunione con Dio e con i fratelli riuniti nella Chiesa. Con una considerazione: mentre la lebbra si contrae per disgrazia, non certo di proposito, quello che la lebbra simboleggia è sempre volontario, è derivato da una libera scelta. E però, a comune conforto, i sentimenti di Gesù non sono cambiati; egli non respinge inorridito i peccatori, anzi ha compassione di loro e risana prontamente quanti con fiducia si rivolgono a lui.