Omelia (15-02-2015) |
don Alberto Brignoli |
No, Dio non vuole il male! A noi oggi risulta difficile comprendere - perché grazie a Dio non ne abbiamo diretta esperienza - la pesantezza e la gravità di una malattia come la lebbra; una malattia che non solo sfigura nella carne chi la contrae, ma che pure crea una grave forma di emarginazione sociale, considerato l'elevato grado di contagiosità che essa porta con sé, soprattutto in epoche passate, dove i ritrovati ultimi della scienza e della medicina (che ora permettono in molti casi la guarigione) erano ancora ben lungi dall'essere immaginati, cosa che purtroppo avviene ancor oggi in una ventina circa di Paesi del mondo, dove la situazione è talmente endemica che si manifesta un nuovo malato ogni tre minuti. Ignoranza sulla malattia e povertà strutturale sono le cause principali della diffusione di questa malattia, che nel passato ha dovuto fare i conti soprattutto con la peggior forma di ignoranza: quella che portava a ritenere il malato di lebbra - o di qualsiasi altra grave malattia con evidenti risvolti visivi - un impuro, e soprattutto un peccatore, un essere maledetto da Dio. Già, perché dove funzionava il concetto di "retribuzione divina" (ossia, se sei buono Dio ti premia, se sei cattivo Dio ti castiga, con il suo risvolto contrario, ovvero se Dio ti ha castigato con una malattia, vuol dire che sei stato cattivo) era palese agli occhi di tutti che chi si ammalava di lebbra aveva certamente commesso qualcosa di veramente grave nei confronti di Dio, per cui andava allontanato dalla comunità, emarginato, isolato, escluso da tutto e da tutti fino a quando - graziato da Dio - fosse eventualmente guarito. Perché va da sé che Dio ama il bene e odia il male: e qualora il male si fosse manifestato in maniera evidente nel popolo eletto, non c'era altra soluzione che la sua eliminazione. Il brano di Levitico che abbiamo ascoltato nella prima lettura è emblematico di questa mentalità, portata talmente all'eccesso da creare un reietto e un escluso anche solo al primo ipotetico sintomo della malattia (era sufficiente anche solo "essere sospettato di una piaga di lebbra", per essere condotto alla presenza del sacerdote-giudice-medico che ne decretava l'esclusione e di fatto la morte sociale). Con tutto ciò che ne derivava a livello di "gogna" o di auto denigrazione da parte del malato, che doveva proclamare la propria impurità gridandola ai quattro venti. In tutto questo, ci sarà stato pure un elemento di preoccupazione caritatevole nei confronti della comunità in vista della preservazione della salute di tutti, ma di certo l'elemento "teologico" della malattia non aiutava a scorgere l'elemento di misericordia e di vicinanza al malato che Dio indubbiamente non può far mancare. Tant'è che il Dio fatto uomo, fatto carne, e quindi fatto pure sofferenza e malattia, si abbassa dai cieli, si spoglia della sua assoluta trascendenza e si avvicina all'uomo sofferente toccandolo, entrando in contatto con lui. Non dimentichiamo che il contatto fisico con il lebbroso, per la Legge di Mosè comportava automaticamente l'esclusione dalla comunità, indipendentemente dal contagio contratto o no; al punto che "Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori in luoghi deserti". Cosa che al Maestro non sembra dispiacere più di tanto, visto che a lui stare "dentro la città", nelle sicurezze che la città offre, non è mai interessato. Gesù condivide a tal punto la condizione del lebbroso e si fa talmente carico di lui che non solo accetta di guarirlo e di reintegrarlo nella società (lo manda dai sacerdoti proprio per questo motivo), ma si sostituisce a lui facendosi escluso, emarginato, lebbroso al suo posto. Abbiamo celebrato in questa settimana la memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, e con essa la Giornata Mondiale del Malato, e il brano di Vangelo di oggi ribadisce un concetto molto chiaro anche se difficile da accettare: o la nostra cura nei confronti delle persone che soffrono diviene totale assimilazione alle loro vicende umane, totale condivisione del loro dolore (forse non quello fisico, ma quello che esclude ed emargina, e che fa ancora più male) in vista di una reazione, di una redenzione, magari anche di una guarigione, o altrimenti qualsiasi cosa facciamo diventa una pura azione pietistica, che sia pur lodevole e compassionevole, rischia di essere inefficace e soprattutto poco cristiana. Come quando diciamo: "Ho aiutato qualcuno, sono a posto", purificando così la nostra coscienza come vorremmo purificare la coscienza delle persone escluse ed emarginate che - a volte anche senza volerlo - consideriamo sfortunate e ineludibilmente colpite dalla vita, se non addirittura castigate. Perché purtroppo questa idea del Dio che castiga e ci castiga, ancora non siamo riusciti a sradicarla del tutto dalla nostra mentalità, e forse crea più danni questa che qualsiasi epidemia o malattia contagiosa. Una frase come questa: "Il Signore ci mette alla prova con la sofferenza per purificarci"...vi confesso che non solo faccio fatica ad accettarla, ma personalmente - forse sbaglierò - la ritengo offensiva nei confronti di un Dio che ama la Vita, che è il Dio della Vita, e non della morte e della sofferenza. Dio non può accettare il male, la malattia, la sofferenza, come un ineludibile destino dell'umanità al quale sottomettersi o peggio ancora del quale servirsi per "provare" la fedeltà dell'uomo. Il Dio della Vita, il Dio di Gesù Cristo si è piuttosto fatto carico delle molte sofferenze che la natura umana porta con sé (soprattutto di quelle che è l'uomo stesso con i suoi atteggiamenti a provocare) perché l'umanità sapesse che c'è un Dio che nella sofferenza, nella malattia, nella prova, non solo non la abbandona, ma vuole profondamente che quest'umanità si risollevi. L'affermazione del Vangelo di oggi "Lo voglio, sii sanato" ha una portata di grandissima speranza per ognuno di noi, in particolare per l'umanità che soffre e che per questo è relegata in un isolamento che crea ancor più sofferenza. Il grido dell'umanità sofferente: "Se vuoi, puoi sanarmi", oggi è rivolto dal'umanità stessa ad ognuno di noi, e non possiamo rispondere dicendo: "È Dio che ti mette alla prova, vedrai che ti darà la forza per sopportarla". Anche noi, come il Maestro, dobbiamo fare la nostra parte: avvicinarci a questa umanità, toccare con mano le sue sofferenze, farcene carico, dire di "sì" alle sue richieste di aiuto, anche a costo di rimanere "contagiati" dalle sue sofferenze e di essere costretti, come Gesù, a restare fuori dalla città, fuori dai giochi politici, fuori dai luoghi dove si prendono le decisioni, ma certamente sempre di più dentro il cuore dei poveri e degli emarginati, che è poi il cuore di Dio. |