Omelia (17-03-2013)
Paolo Curtaz
Commento su Gv 8,1-11

A Gesù viene intessuta una trappola straordinaria, ammettiamolo. Una donna (Non ha nome, è solo una poco di buono) viene colta in flagrante adulterio (E il fedifrago che era con lei? Maschilismo assoluto venduto per giustizia...) ed è portata davanti al falegname divenuto Rabbì.


Mosé (Mosé?) ha prescritto che donne come "quella" vanno lapidate, in modo che sia chiaro a tutti che è meglio restare fedeli. Gesù, spiegaci tu: cosa dobbiamo fare? Trappola splendida, davvero. È il Sinedrio che l'ha condannata a morte, quando la pena di morte è riservata ai romani. Gesù si schiererà con l'oppressore? O riconoscerà il giudizio illegittimo del Sinedrio? È Mosè che ha prescritto la condanna a morte: oserà contraddire una legge divina l'anarchico falegname? La condannerà, come dice Mosè, e il padre misericordioso si ritirerà in buon ordine per lasciar spazio al Dio giudice? Una trappola splendida, non c'è che dire. Gesù si china e riflette. Fa ciò che loro non vogliono fare, compie ciò che ogni legge, ogni giudizio (anche religioso) deve fare: chinarsi, cioè piegarsi nell'umiltà e riflettere, mettere una distanza prima di esprimere un giudizio. Sì, questa donna ha tradito il marito. Ma il popolo di Israele ha tradito lo spirito autentico della Legge. Richiama all'essenziale, il figlio di Dio, riscrive sulla pietra la legge che gli uomini hanno adattato e stravolto. Tutti tacciono, ora. Già, ha ragione il Rabbì. Se ragioniamo sempre col codice in mano chi si salva? Se ci accusiamo gli uni gli altri, chi sopravvive? Tutti se ne vanno, ad uno ad uno. Le pietre restano in terra.