Omelia (31-03-2013)
Paolo Curtaz
Commento su Gv 20,1-9

Pietro e Giovanni corrono nel silenzio della città ancora immersa nel sonno. Corrono lasciando al loro fianco la cava di pietra in disuso riutilizzata dai romani. I pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano in alto, aspettando nuovi condannati. Il sangue rappreso tinge di rosso il legno scuro. Corrono, ancora, il fiato manca, la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, si attarda; scendono rapidamente oltre la cava. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba di Giuseppe di Arimatea è aperta, la pesante pietra che ne bloccava l'ingresso ribaltata. Giovanni aspetta, le tempie pulsano, ansima. Arriva Pietro. Giovanni lo guarda lungamente, poi abbassano la testa ed entrano. Nulla. Gesù è scomparso. Tutto è iniziato da quella corsa. Quella tomba vuota, ultimo drammatico regalo fatto a Gesù da parte del discepolo Giuseppe di Arimatea, ricco e potente, che non aveva potuto salvare dalla morte il suo Maestro, è rimasta lì, vuota, a Gerusalemme, muta testimone della resurrezione. Ora è ricoperta di marmi, la tomba, divisa e contesa (fragilità degli uomini) tra mille confessioni cristiane che ne rivendicano la proprietà. Poco importa. È lì, quella tomba, esattamente lì dove la trovarono Pietro e Giovanni. Ed è ancora vuota.