Omelia (15-03-2015)
mons. Roberto Brunelli
C'è chi ancora va da Gesù di notte

Due i temi principali delle letture odierne. La prima (2Cronache 36,14-23), con a commento il commovente salmo responsoriale ("Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre...") è nota per avere ispirato il Nabucco di Verdi e una celebre poesia di Quasimodo: riguarda infatti la deportazione dell'antico popolo ebraico e il suo ritorno in patria dopo settant'anni. Subito il pensiero va all'immane tragedia recente, dei sei milioni di ebrei deportati nei campi nazisti, dai quali però non hanno potuto fare ritorno. E va anche ai milioni di uomini che tuttora, in Africa e in Medio Oriente, sono costretti dalla fame o dalle guerre a lasciare la patria, con quali speranze di tornarvi è facile intuire.
Il vangelo (Giovanni 3,14-21) parla dell'incontro notturno di Gesù con Nicodemo: un incontro dal messaggio denso, e insieme avvolto in un'aura poetica. E' lecito infatti collocarlo nel luogo dove Gesù deve aver trascorso spesso la notte quand'era in città: quel podere coltivato a ulivi (il getsèmani), dove in seguito, proprio di notte, fu arrestato. E ce li possiamo figurare, i due interlocutori, seduti sotto un argenteo ulivo a parlare di cose profonde, alla luce della luna che filtrava tra i rami.
Il visitatore notturno era uno degli uomini più in vista di Gerusalemme, un componente del sinedrio, il supremo organo di autogoverno degli ebrei di allora, dove già prevaleva il rifiuto di Gesù (come poi avvenne, con la condanna a morte). Nicodemo aveva sentito parlare di quel giovane "rabbi" che diceva e faceva cose straordinarie e, nella sua onestà, prima di rifiutarle ritenne di doverle vagliare di persona; senza tuttavia compromettersi davanti ai colleghi: per questo chiese di incontrarlo in segreto, di notte.
In quella situazione viene del tutto naturale parlare del contrasto tra luce e tenebre, e Gesù se ne avvale per spiegare la propria presenza nel mondo e l'opera che è venuto a compiere. Comincia con un richiamo alla storia del popolo d'Israele, a un episodio del viaggio nel deserto verso la terra promessa (Numeri 21,6-9): assaliti da serpenti velenosi, gli ebrei poterono salvarsi guardando con fede a un serpente di rame che per ordine divino Mosè aveva innalzato su un'asta. "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto" dice Gesù, parlando di sé in terza persona "così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo". Preannuncia in questo modo la sua crocifissione, e subito dopo ne dà il motivo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna". Sa bene però che non tutti crederanno: ed appunto per spiegare questo "mistero" si avvale del contrasto accennato: "La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio".
Il resoconto del colloquio notturno non dice quale fu la reazione di Nicodemo; sappiamo che, se non subito, certo più avanti, magari dopo avere riflettuto, egli credette: cercò di difendere Gesù durante il processo davanti al sinedrio (Giovanni 7,50-52) e al momento della deposizione dalla croce arrivò con trenta chili della mistura di mirra e àloe che secondo l'usanza serviva a preparare i cadaveri per la sepoltura (Giovanni 19,39-40). E tuttavia il suo nome è rimasto nella storia per designare l'atteggiamento (lo si indicava un tempo col termine "nicodemismo") di quanti si mantengono amici di Gesù di nascosto, per timore del giudizio altrui. Anche oggi non manca chi intimamente crede, ma, cedendo alle tante pressioni dissonanti rispetto al Vangelo, non osa manifestare la propria identità, e preferisce "andare da Gesù di notte". Quando si dice il coraggio della coerenza.