Omelia (15-03-2015)
dom Luigi Gioia
Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere

Non è un paradosso di poco conto trovarsi, all'inizio del vangelo di oggi, di fronte a un serpente! Non un serpente da temere, ma che è messo al centro, innalzato e che tutti dobbiamo guardare per essere guariti.
Questo serpente già nel libro della Genesi è il simbolo per eccellenza del male, del maligno; uno degli animali più temuti che esistano, la cui vista stessa ispira repulsione e ansietà. Ebbene, proprio il serpente diventa simbolo di guarigione nel libro dei Numeri, quando è innalzato da Mosè su una stele perché guardandolo si possa essere guariti dal suo morso. Ancora più paradossalmente, proprio questo simbolo del male, proprio questo serpente diventa segno prefiguratore di Cristo e della croce sulle labbra stesse di Gesù.
E' un paradosso. Eppure è il paradosso stesso che caratterizza la croce. Lo sappiamo, la croce era uno dei patiboli più crudeli e temuti del mondo antico. Noi ci siamo familiarizzati con questo simbolo, abbiamo dimenticato che la sua sola vista ispirava terrore all'uomo antico. E sulla croce c'era un condannato a morte così straziato, così torturato e contuso, da aver perso l'aspetto di un uomo, un condannato che gridava di dolore, di disperazione, disprezzato, vilipeso da tutti, sospeso tra cielo e terra, maledetto.
Una scena insostenibile, quella della croce, quella di Gesù crocifisso, che diventa però lo spettacolo, la "teoria" -per dirlo con il termine di Luca- la contemplazione (teoria è la parola greca che si traduce con "spettacolo" o "contemplazione") alla quale fino alla fine dei tempi ogni uomo dovrà innalzare lo sguardo per avere la vita.
Allora chiediamoci, fratelli e sorelle, come può un serpente - strumento di morte, animale mortifero - diventare segno di vita e come può, ancora di più, una tale tragedia, come quella della croce, diventare strumento di salvezza e di guarigione?
La prima lettura ci aiuta a capirlo presentandoci l'evento più traumatico di tutta la storia di Israele. Circa sei secoli prima della venuta di Cristo, delle truppe straniere distrussero il tempio di Gerusalemme e deportarono tutta la popolazione della città a Babilonia per sei lunghi decenni di esilio. Questo fu un grande trauma, perché tutti i segni della benedizione di Dio -la terra, il tempio e il re- vennero a mancare. Fu annullata la dignità regale e sacerdotale del popolo. Come il serpente e la croce, l'esilio fu un evento di tale dolore, causò un tale sconcerto che - come ce lo dice il salmo responsoriale - svanì il canto della cetra. Ci si poteva solo sedere e piangere lungo i fiumi di Babilonia: Là sedevano piangendo.
Eppure proprio il periodo dell'esilio diventa un kairos, un tempo favorevole nel quale per il popolo si aprono occhi nuovi. E' il tempo del ricordo: Se mi dimentico di te, Gerusalemme, la mia lingua si attacchi al mio palato - dice ancora il salmo responsoriale. E' il periodo nel quale il popolo esce dalle tenebre e viene alla luce, esce dalle tenebre dell'infedeltà e si apre al dono della fedeltà di Dio. E' il tempo della maturazione fondamentale della profezia. Profezia vuol dire: Dio che parla attraverso i profeti, Dio che parla attraverso la Parola di Dio. Ebbene, è in questo periodo che la parola di Dio acquisisce una centralità nuova nella vita di Israele. La maggior parte dei libri che noi chiamiamo ‘Antico Testamento' sono stati redatti proprio durante il periodo dell'esilio. Non essendoci più il tempio, non essendoci più né terra né re, tutta l'identità di Israele si concentra nel libro.
Un fenomeno analogo a quello che si verifica dopo la diaspora, alcuni centinaia di anni dopo. Pochi decenni dopo la morte di Gesù, il popolo è cacciato da Israele, di nuovo perde la terra, la nazione, il tempio e il re e deve di nuovo allora concentrare la sua identità sui libri profetici, sulla Scrittura. Però questo è il segno di una volontà senza precedenti nella storia di Israele di ascoltare la voce del Signore, di farne memoria, di rimeditarla per scoprire il senso profondo di ciò che stavano vivendo. Ne risulta così una maturazione decisiva della speranza di Israele. A partire da quel momento cominciano a non mettere più la fiducia nel possesso di una terra materiale, in un re terreno, ma cominciano ad aspettare un re, un profeta, un sacerdote, il messia, che sarà lo strumento decisivo dell'intervento di Dio nella storia: colui che realizzerà tutte le promesse di Dio, Gesù appunto.
Quindi per ricapitolare, le stesse cose (il serpente, la croce); gli stessi eventi (l'esilio, la diaspora), possono essere visti da due punti di vista diversi: come punizioni oppure come strumenti di vita, come fallimenti oppure come momenti di crescita, come segni della collera di Dio o come segni del suo amore.
L'esilio è presentato nella prima lettura come la conseguenza dell'ira del Signore, un'ira che ha raggiunto il suo culmine. Dice la prima lettura dal libro delle Cronache: Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole, schernirono i suoi profeti, al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. L'esilio è interpretato dunque dal libro delle Cronache come la conseguenza di questa collera di Dio. Lo stesso vale per la croce, lo sappiamo. Non mancano correnti teologiche che ancora oggi leggono nella croce un'espressione della collera di Dio: Gesù sarebbe stato punito dal Padre al posto di tutti noi.
La realtà è diversa. Il credente che medita, già al tempo dell'esilio e poi dopo la morte di Gesù, dopo la sua resurrezione, il credente che scruta la parola, il credente che penetra più profondamente il disegno della salvezza di Dio, ebbene questo credente accede a un senso, ad una spiegazione più profonda. Anche per la croce, quello che sembra fallimento o punizione, deve essere visto da un altro punto di vista, secondo quanto ci dice Paolo nella seconda lettura, e poi Giovanni nel vangelo di oggi: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le nostre colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo. E poi Giovanni: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
La croce, il fallimento di Gesù, la sua morte, non sono espressione della collera di Dio, ma del suo amore e della sua misericordia: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito. E tutta la differenza nella percezione della croce come punizione oppure come espressione dell'amore di Dio, tutta questa differenza, tutta questa capacità di leggere positivamente gli eventi, è quella che permette la fede. La fede è la luce che viene nel mondo. La fede è l'illuminazione che opera in noi il battesimo. La fede è ciò che ci permette di accedere al senso e alla consolazione offerti dalla nostra collezione di libri babilonesi, di libri redatti a Babilonia: la Scrittura, la Parola di Dio.
Allora, fratelli e sorelle, come il popolo di Israele in esilio non ha avuto paura della luce di questa parola, di questa verità che certo umilia, ferisce, ma umilia e ferisce per guarire, ebbene, anche noi non fuggiamo la luce. Come ce lo dice Gesù, come ce lo raccomanda Gesù nel Vangelo. Ci sono coloro che restano nelle tenebre, non vogliono venire alla luce, ne hanno paura. Noi non dobbiamo essere tra coloro che hanno paura della luce. Dobbiamo scrutare più attentamente la Parola. Dobbiamo lasciarci scrutare da essa, ma anche lasciarci consolare da essa. Dobbiamo approfondire la nostra comprensione del disegno di Dio sulla storia appunto grazie alla parola di Dio. Questa parola che aprirà per noi le sorgenti della consolazione dello Spirito Santo, lo Spirito Consolatore.
Gesù lo dice nel Vangelo: "Volete restare nelle tenebre oppure volete venire alla luce?. Certo, venendo alla luce, vedrete più chiaramente i vostri peccati, le vostre mancanze, le vostre infedeltà, la durezza del vostro cuore, però nello stesso tempo riceverete occhi nuovi che vi permetteranno di leggere la croce, in tutte le sue forme, in una maniera nuova; di leggere la presenza, l'opera di Dio nella vostra vita, la sofferenza, i fallimenti anche, le difficoltà che attraversate, di leggerli tutti alla luce di questo amore così grande che il Padre ci ha mostrato facendoci dono del suo Figlio".
Ed ecco allora che anche le realtà più tragiche, come il serpente; le realtà più insostenibili, come la croce; le tragedie più amare, come quella dell'esilio e della diaspora, possono trasformarsi in momenti di maturazione, di crescita, di grazia - possono diventare i momenti nei quali non siamo cancellati, annullati, ma cresciamo, approfondiamo la nostra vita cristiana, diventiamo più profondamente ciò che Dio vuole che siamo: suoi figli.