Omelia (22-03-2015) |
don Marco Pozza |
Non resistono più. Vogliono vederlo Alla fine l'han detto dei Greci venuti a Gerusalemme: forse perché non ce la facevano più o, magari, perché sentivano che quella cosa era sulla bocca di tanti ma nessuno aveva il coraggio di confessarla. L'hanno detto, e questo basta perché rimanga scritto. S'avvicinano a Filippo - chissà da quanto s'erano organizzati quella scena: quanti appostamenti, quante supposizioni, quanta voglia nel cuore - e glielo dicono senza mezzi termini. Ad una bellezza rude e fanciullesca s'aggrappano: «Vogliamo vedere Gesù!». Punto: che struggimento, che ardore, che mistero. Loro, uomini di una terra d'intelletto e di fascino, come i Magi: pur lontani, avvertono il fascino di quel Volto, sentono l'impeto di quella calamita che, pur ignota, mette in subbuglio il cuore e non lo manda fuori giri. Non li lascia più nemmeno in pace con loro stessi «Vogliamo vedere Gesù!». Vogliamo vederlo, non ce la facciamo più a solo a sentir parlare: la sua faccia è per noi mistero e desiderio, ansia e consolazione, gaudio e struggimento. Come i discepoli quella volta: anche loro non ce la facevano più a cogliere d'orecchio la Bellezza. Vollero metterci dentro lo sguardo. Anche quella volta fu Filippo a fare al Maestro confessione comunitaria: «Mostraci il Padre e ci basta». Ci sono sere - di tempeste furiose e di mari sui quali non soffia alito di vento - nelle quali l'unica cosa che conta è vederLo. Tutto il resto non basta più. E' la festa dei cinque sensi: c'è un Dio così vicino d'essere diventato abbordabile, intimo, di casa e bottega. Non basta la vista, occorre tutto l'armamentario per fare festa. Un Dio da vedere. La vista, il senso dei sensi: «Vide e credette» (Giovanni 20,8). La vista è il racconto della nostra storia. Con lo sguardo si vive e si muore, ci s'innamora e si dispera. Lo sguardo non tradisce. Un Dio da ascoltare. L'udito è possibilità di relazione, di azione, di reazione. E' sentire dei suoni che svegliano la memoria, è sentire ma anche ascoltare: «Subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola» (Marco 14,72). E' possibilità di cogliere le differenze: di ritmo, di frequenza, di melodia. Di timbri e di musica. Un Dio da annusare: l'olfatto è legato all'odore e al sapore: «Mi ha detto tutto ciò che ho fatto» (Giovanni 4,39). Quindi alla memoria, al ricordo, all'identità. E' la mappa della nostra storia: e ogni viaggio chiede una mappa per non perdersi. Un Dio da gustare. Il gusto: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo» (Matteo 26,26). E' l'acquolina in bocca, l'arrosto della domenica, il sapore di Cristo. Un Dio da toccare: il tatto: il senso più bistrattato nell'era del web e degli abbracci virtuali. Il tatto della Creazione: il senso che accese la storia. Il tatto dell'Incarnazione: «ll Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,14): il tatto che divenne contatto. Fino a fondersi nell'amicizia. «Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita[...]Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti - volere un bene più alto, più profondo - e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore[...]Tutti, del resto, abbiamo bisogno di percorrere un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio. Siamo pellegrini verso la patria celeste, verso quel bene pieno, eterno, che nulla ci potrà più strappare. Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell'uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua vera altezza [...] In questo pellegrinaggio, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene» (Benedetto XVI, «L'anno della fede. Il desiderio di Dio», www.vatican.va, 7 novembre 2012). Di quella ricerca del Volto, pionieri furono i discepoli. Alle porte di Gerusalemme han trovato altri cercatori come loro. Tutto come all'inizio: anche allora fu così. «Andarono e videro dove abitava (...) Abbiamo trovato il Messia!» (Gv 1, 35-42). La gioia di pochi scatena un tam tam per le strade di Palestina. Andrea lo dice a Simone, poi lo viene a sapere Natanaele. Dopo di lui altri ancora: una voce che mai più s'arresterà. Il desiderio di uno diventa il desiderio di molti, seppur stranieri: «Vogliamo vedere Gesù». E' così semplice il motivo: portare Gesù dopo averlo incontrato è vivere in modo tale che gli altri, guardandoti, dicano "Ma come sei bello, vorrei essere proprio come te". E' così: quando tu sai di buono, l'altro ha voglia di assaggiarti: quando tu profumi di buono, uno ha voglia di curiosare dentro i tuoi occhi. Di rubarti quel segreto. D'incontrare pure lui quel Dio che con la Samaritana si «si fece spazio poco a poco nel cuore di lei (...) Colui che domandava da bere, aveva sete del desiderio di quella donna» (Agostino). Peccato che pochi ce lo dicano: non è solo l'uomo a desiderare Dio. All'inizio è sempre l'esatto contrario: il desiderio di Dio è di rendere desiderabile la sua Presenza accendendo nel cuore dell'uomo il desiderio di Lui. Un Dio desiderabile e desiderante. Il Dio di chi, per non soccombere, deve confessarsi pubblicamente: «Vogliamo vedere Gesù». Non ce la facciamo più! |