Omelia (29-03-2015) |
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Non so se capita anche a voi, ma per me, la Domenica delle Palme, dopo aver ascoltato il Vangelo lunghissimo che ci fa ripercorrere tutta la Passione di Gesù, viene voglia solo di silenzio. Niente parole: ne abbiamo ascoltate tante, dalla voce degli evangelisti! Più che commentare, quindi, la Parola di Dio di questa domenica, mi piace invitarvi a fare con me una passeggiata: ripercorriamo insieme il racconto di Marco, fermandoci nei luoghi che lui nomina nelle sue pagine. Partiamo dall'inizio, allora, da Betania: sentite che allegria! È una serata di festa, di amicizia! Siamo in casa di Simone, un lebbroso guarito. Che stupore, al gesto tenero e premuroso della donna che omaggia il Maestro e Signore, versando sul suo capo olio profumato... È nardo, sentite? Un profumo così intenso che arriva fino a qui! È una carezza speciale, prima che il dolore si faccia avanti. Due giorni dopo, seguendo i passi del nostro Maestro, ci spostiamo a Gerusalemme, in una sala elegante, con tappeti e ampie finestre. Lì, i Dodici, su indicazione del loro Rabbi, hanno predisposto la cena solenne per la Pasqua ebraica: c'è l'agnello arrostito e l'odore saporito delle spezie si diffonde intorno, mescolato con le focaccine di pane azzimo!... Però questa cena, iniziata in clima di festa, presto è velata di amarezza: il Maestro parla della sua morte, la descrive come ormai vicina. No, Gesù, dài: questi non sono discorsi da fare a tavola! Lui insiste: voi mi abbandonerete, mi lascerete da solo. E non si lascia incantare dalle promesse di fedeltà degli Apostoli. Seguiamoli, mentre insieme raggiungono il Getzemani, questo uliveto tranquillo: li invita a fargli compagnia, a vegliare nella notte mentre si raccoglie in preghiera. Ma i Dodici, confusi, appesantiti dalla cena, stanchi per la giornata, si addormentano sull'erba. Noi, in questo momento, vogliamo restare ben svegli: sostenere il Signore con la nostra preghiera e il nostro affetto, mentre affronta l'angoscia terribile della morte che si avvicina. E si avvicina rumorosamente: ecco una folla vociante, con spade e bastoni, guidata da Giuda. Un bacio è il segno del tradimento. Tutti gli amici fuggono spaventati e Gesù viene portato via, trascinato davanti al Sommo Sacerdote. Guardate lì, nel cortile del Sinedrio: c'è Pietro. Allora non tutti sono fuggiti! Allora non l'hanno davvero abbandonato! Qualcuno è disposto a rischiare la propria vita per il Maestro! Beh... insomma... proprio rischiare la vita... Pietro è qui, nel cortile, ma non vuole essere riconosciuto come uno dei seguaci del Nazareno: perciò, quando una serva fa notare che di certo è un amico del Rabbi appena arrestato, Pietro si affretta a negare, terrorizzato. Lo sentite? È un gallo che canta: l'alba è vicina e Pietro ha rinnegato il suo Signore, proprio come gli era stato predetto da Gesù. Siamo addolorati con Pietro, capiamo le sue lacrime e capiamo anche la sua paura: non siamo certo molto più coraggiosi. Ma non restiamo ancora qui fuori, nel cortile: fa freddo, l'umidità è tanta. Entriamo anche noi nel Sinedrio. Sì, avete ragione, non è che dentro si stia meglio: il processo in cui il nostro Maestro e Signore è l'imputato, ci rattrista profondamente. Lo accusano ingiustamente, inventano menzogne sul suo conto, lo insultano, gli sputano addosso, lo schiaffeggiano... Emettono anche una sentenza di morte, ma devono farla confermare dal governatore romano, Ponzio Pilato. Uniamoci alla processione che si snoda, di prima mattina, dal Sinedrio fino al palazzo Pretorio. C'è tanta folla urlante, fuori dal pretorio: aspettano che Pilato liberi un condannato, come fa sempre per la festa di Pasqua. A stare qui, veniamo spinti più volte da tanta gente che grida, che suda, che incita ad obbedire ai Sommi Sacerdoti. Quando il governatore chiede di scegliere tra Gesù e Barabba, tante voci si levano forti e decise perché il prescelto sia Barabba. Per Pilato non sembra fare molta differenza: li accontenta e consegna Gesù ai soldati, perché sia flagellato e poi condotto alla crocifissione. Scusate, ma io non voglio entrare nel cortile dove stanno flagellando il mio Signore. Già saperlo, strazia il cuore. Assistere a tanta crudeltà supera le mie forze. Allontaniamoci, allora e uniamoci alle donne, sulla via che da Gerusalemme conduce al Golgota: dovrà passare di qui per forza, quando lo caricheranno della croce. Eccolo, eccolo che arriva... Oh, non si può guardare il suo volto, tumefatto, pieno di sangue... anche la veste è sporca di terra, sputi, sangue... quella bella tunica che sua madre aveva tessuto con amore... Il nostro Maestro è così indebolito dalle percosse che non ce la fa a sorreggere il peso del legno. Perciò dietro di lui viene Simone di Cirene, un contadino che tornava dalla campagna, ed è stato obbligato a portare la croce. Non è mica un gesto di gentilezza deciso dai soldati: hanno paura che il condannato non giunga vivo fino alla cima del Golgota e non vogliono rinunciare allo spettacolo raccapricciante della crocifissione! Restiamo qui, venite: un po' indietro, mescolati alla folla che osserva. Riconosciamo i volti e gli sguardi di chi ha amato Gesù lungo la sua vita ed ora piange la sua sofferenza. Ma intorno ci sono tanti venuti per schernirlo, deriderlo, urlare contro di lui la loro rabbia, la loro delusione: "Non sei il Messia - è il succo delle loro parole - Non sei capace di salvare nessuno, di liberarci dai Romani, di salvarci dalla malattia e dalla morte! Non puoi salvare te stesso: come puoi crederti il salvatore del mondo?!" Gesù non risponde nulla: per sei ore, dalle 9 del mattino fino alle 3 del pomeriggio, resta a soffrire inchiodato alla croce. Poi, con un ultimo grido, si consegna al Padre. Il sole è oscurato dalle nubi: fa freddo, improvvisamente, qui sul Golgota. Nessuno parla, in questo momento, così che si riesce a sentire la voce del centurione. Ha osservato Gesù soffrire e morire ed ora, questo soldato, questo invasore, questo pagano, commenta stupito: "Veramente quest'uomo era figlio di Dio." Gesù è deposto dalla croce, affidato alle mani amorevoli di sua madre, delle donne, degli amici: lo portano al sepolcro nuovo, quello comprato da Giuseppe di Arimatea. Arriviamo anche noi davanti alla tomba scavata nella roccia: appena in tempo per vedere che l'ingresso è chiuso con un masso grosso e pesante. Tutto è silenzio, ora, mentre il sole tramonta. Tutti i presenti pensano sia stata scritta la parola FINE. Ma noi, pur nel dolore, anche con gli occhi velati di lacrime, custodiamo nel cuore la certezza della Risurrezione. Ne sentiamo il profumo, ne avvertiamo la forza. Questa fede, ci sosterrà fino alla notte di sabato prossimo, quando con tutta la Chiesa, potremo di nuovo cantare l'Alleluia! Per ora, in silenzio, con il cuore raccolto e l'anima vibrante, ci inoltriamo nella Settimana Santa. Commento a cura di Daniela De Simeis |