Omelia (11-01-2013)
Paolo Curtaz
Commento su Lc 5,12-16

La lebbra è anzitutto la malattia della povertà e della solitudine. In un mondo con scarse conoscenze mediche, il contagio era evitato solo con l'allontanamento del malato che, di conseguenza, non poteva più avere contatti con i famigliari e doveva girare urlando a tutti la sua malattia per tenerli a distanza. Una situazione di abbandono e di degrado, di solitudine e di rabbia. Un lebbroso si sentiva ed era considerato abbandonato da Dio. Peggio: un peccatore che si era meritato quel destino straziante. Roso dai sensi di colpa, dalla rabbia, un lebbroso consumava la sua vita nella sopravvivenza quotidiana, con l'unica speranza di ottenere un miracolo da colui che l'aveva ridotto in quello stato. Ma Gesù non la pensa così. Non ha paura di toccare il lebbroso. E non è lui a contagiarsi, ma il lebbroso a guarire. Gesù lo invita ad osservare le prescrizioni rituali: il sacerdote fungeva anche da ufficiale sanitario e doveva certificare l'avvenuta guarigione. E, come abbiamo già visto, Gesù impone il silenzio: non vuole essere scambiato per uno dei tanti guru che promettono improbabili guarigioni. Gesù opera e guarisce per annunciare il Regno di Dio, per invitare alla conversione, e la guarigione, in questo senso, è un segno della presenza del Messia.