Omelia (17-01-2013)
Paolo Curtaz
Commento su Mc 1,40-45

Il Signore ha compassione del lebbroso, sente la sua sofferenza, condivide il suo dolore. La lebbra, malattia della povertà che isolava dal mondo, era considerata come una punizione divina e il malato, roso dai sensi di colpa, doveva stare lontano dalle città. Gesù non ha paura di toccarlo, di purificarlo, di restituirgli dignità e salute. Ma il lebbroso non capisce, non sa chi sia veramente il Rabbì. A lui interessa solo guarire e, contravvenendo alla dura ammonizione di Gesù, invece di tacere, proclama ai quattro venti l'avvenuta sua guarigione, al punto che Gesù deve rivedere il suo progetto iniziale ed evitare le città. Una malintesa esperienza di fede può causare dei danni: al Signore viene impedito di evangelizzare, perché il rischio di essere scambiato per un mago è troppo alto. Quando ci avviciniamo alla fede e vi aderiamo, con entusiasmo, pensiamo che sia tutto facile, tutto immediato, tutto luminoso. Il discepolato, invece, ha bisogno di tempo e di disciplina, di consigli e di conversioni continue. Non facciamo come il lebbroso che vistosi guarito, pensa ormai di avere in mano la propria vita. La conversione non è che il punto di partenza di un lungo percorso, a tratti doloroso, che ci porta verso la pienezza.