Omelia (26-04-2015)
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Il brano del Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato è solo una piccola parte di un lungo discorso pronunciato da Gesù, in cui parla di sé come di un pastore.
E il nome "pastore" lo ripete molte volte: sembra proprio tenerci, che tutti lo riconoscano con questo ruolo.
Come mai sceglie proprio questa figura?
Be', prima di tutto, al tempo di Gesù i pastori in Israele erano veramente tantissimi, quindi tutti ne conoscevano qualcuno di persona e molti avevano fatto il pastore almeno per un periodo della propria vita.
Poi, da Abramo in avanti, per tutto il tempo in cui il popolo d'Israele aveva vissuto da nomade, la sua unica ricchezza era stata proprio la pastorizia. Se leggiamo il libro della Genesi, vediamo che tutti i patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, erano pastori ed anche Mosè, prima di incontrare il Signore nel Roveto ardente, aveva vissuto da pastore, insieme alla famiglia di sua moglie.
Non possiamo dimenticare il giovane Davide che, quando viene scelto come futuro Re d'Israele, tornava dai pascoli, insieme alle greggi del padre.
Ed infine c'è la voce antica dei profeti, che avevano preannunciato un Re Pastore, cioè un sovrano che avrebbe avuto cura con amore del suo popolo, così come fa un pastore con il suo gregge.
Chi ascoltava parlare il Rabbi di Nazareth, aveva ben presente tutto questo, e bastava la parola pastore ad evocare una lunga storia di fede.
Gesù, educato da buon ebreo, lo sa bene, perciò parla un linguaggio che i suoi ascoltatori possono capire immediatamente.
Per noi, oggi, è più difficile immaginare un vero pastore: è un'esperienza lontana da noi e probabilmente sappiamo poco di come vive un pastore.
Anch'io non ne sapevo granché, ma poi ho avuto una bella occasione. Ora vi racconto.
Per andare a lavoro, passo in auto attraverso strade di campagna e alcuni dei campi che costeggio, in primavera si trasformano in pascoli, dove portano le pecore.
Non conosco bene i pastori che si alternano su questi prati, ma uno di loro mi è capitato di vederlo più spesso degli altri, così mi sono fermata a parlare con lui perché volevo portare i miei alunni di scuola a vedere gli agnellini. Così, dialogando, ho imparato tante cose.
Roman, è rumeno ma parla abbastanza bene l'italiano. Mi ha spiegato che i pastori vivono insieme al gregge, per tutto il tempo in cui dura il pascolo, dalla primavera all'inizio dell'autunno. Poi tornano a casa, dove per l'inverno ci sono le stalle e lui lavora alla produzione dei formaggi insieme ad altri familiari, che lo aiutano anche a tosare le pecore all'inizio della primavera.
Roman ha il camper dove vive insieme a suo fratello Tito, durante la stagione del pascolo: quando devono spostare il gregge, Tito guida il camper e raggiunge il nuovo pascolo, mentre Roman accompagna a piedi le pecore.
Con loro c'è un grosso cane, Ringo, che fa la guardia durante la notte, perché nulla di male capiti alle pecore.
Tutta la giornata, Roman e Tito stanno in mezzo al gregge: controllano la salute degli animali, notano se hanno mangiato e quali erbe preferiscono, le mungono se occorre e hanno cura ed attenzioni specialissime per gli agnellini, con le zampe ancora fragili.
Roman mi ha detto che, spesso, il problema più grosso è attraversare la strada, perché le macchine hanno fretta e sono impazienti di dover aspettare mentre tutto il gregge attraversa lentamente da un lato all'altro. Soprattutto gli agnellini hanno difficoltà, perché l'asfalto duro non li aiuta. Quindi, molte volte, è il pastore a prendere in braccio i più deboli e a portarli in fretta dall'altra parte.
Stando sempre insieme ai suoi animali, prendendo in braccio gli agnellini, l'odore delle pecore gli si incolla addosso. Devo confessarvi che al mio naso, abituato a bagnoschiuma, profumo e deodorante, non è sembrato proprio un odorino simpatico, ma Roman ormai non lo sente più, è diventato parte di lui.
Mentre guardavo il gregge, a me sembrava che le pecore fossero quasi tutte uguali: ne distinguevo giusto qualcuna perché un po' più grossa o con qualche macchia particolare sul pelo o sulle zampe. Ma le altre...
Invece Roman le sa distinguere una per una: mi ha detto che è normale, che passando tanto tempo insieme a loro s'impara a riconoscere ogni particolare. Ha dato un nome a ciascuna e mi spiegava anche il loro carattere: "Besda, quella lì a sinistra, è la più testarda di tutte... Mentre Zoe, che ha accanto il suo agnellino, si spaventa facilmente... A Mimosa piacciono le coccole e vedrai che adesso ti viene vicino..."
Anche le pecore riconoscono il pastore: distinguono la sua voce, quando le chiama per radunarle, riconoscono i diversi fischi che usa per segnalare un pericolo o per richiamarle.
Dopo aver parlato con Roman, ho cominciato a capire meglio come mai Gesù desidera essere considerato un buon pastore: perché Lui ha, per ogni persona, lo stesso amore e la stessa cura di un vero pastore per le sue pecore.
Ed infatti sottolinea la differenza tra il pastore e il mercenario: le pecore appartengono al pastore, sono sue, sono preziose per lui. Invece il mercenario è solo pagato per controllarle, ma non si affeziona loro, non le ama e se per caso vede avvicinarsi una minaccia, subito scappa, preoccupato solo di se stesso.
Nel brano del Vangelo di oggi, Gesù sa che, quando parla di se stesso come pastore, la gente che lo ascolta coglie ogni sfumatura, perché sono tutti parte del popolo d'Israele. Proprio per questo aggiunge qualcosa di molto importante: "E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore."
Commento a cura di Daniela De Simeis