Omelia (13-11-2013)
Paolo Curtaz
Commento su Lc 17,11-19

Sono solo lebbrosi, non samaritani o ebrei. Il dolore ci rende uguali, elimina le differenze, la disperazione cuce rapporti impensabili. E urlano, chiedono salvezza, chiedono di essere riammessi nel mondo dei vivi. Gesù li ascolta ma chiede di andare dai sacerdoti del tempio: la guarigione è in un percorso, è progressiva, non è mai tutta di colpo. Ci vogliono degli anni per convertirsi, degli anni per diventare veramente discepoli. E si mettono in strada. Trovatisi guariti ecco che le differenze ritornano: i nove ebrei vanno al tempio ma il samaritano non ha un tempio, il suo è stato raso al suolo un secolo prima, proprio dagli ebrei. Allora si rivolge al Tempio. E il Tempio, Gesù, la presenza di Dio, lo accoglie e commenta amareggiato: dieci sono stati sanati, uno solo è stato salvato. Non è vero che basta la salute!, non è vero che la salute è tutto. C'è di più: la salvezza. La salvezza di sapersi amati, di essere nel cuore di Dio, di essere donati al mondo. L'ingratitudine è più difficile da guarire della lebbra: ringraziamo il Signore per la salvezza che ci ha strappato dall'isolamento e dalla disperazione e ci ha resi liberi.