Omelia (03-05-2015) |
mons. Roberto Brunelli |
Perché la vite dia i suoi frutti Nei giorni scorsi un'agenzia di stampa ha pubblicato l'annuale statistica dei battezzati nel mondo, rilevando che solo i cattolici, senza considerare le altre confessioni cristiane, sono aumentati in un anno di circa 60 milioni. E' un segno del percorso in atto sin dalle origini, quando - ricorda la prima lettura (Atti 9,26-31) - la Chiesa "si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero". Da sottolineare perché vale anche oggi: pur riconoscendo i meriti di chi si impegna nella diffusione del vangelo, la Chiesa cresce "con il conforto dello Spirito Santo", cioè per opera di Dio! Venendo al vangelo, la scorsa domenica abbiamo sentito Gesù parlare del proprio rapporto con chi crede in lui, paragonandolo a quello di un buon pastore con il suo gregge. Chiaramente è una similitudine; ma il nostro rapporto con lui è così particolare, così differente persino da quello possibile con il più amato dei nostri simili, che lo si può spiegare soltanto per approssimazione, con paragoni: utili, ma sempre inadeguati. Ecco perché egli stesso ricorre anche ad altri paragoni, come ad esempio quello della casa sulla roccia: la roccia è lui, noi siamo la casa che, se fondata in lui, resiste a tutte le avversità (Matteo 7,24-27); oppure quello dell'acqua viva promessa alla donna incontrata al pozzo: lui è la sola acqua in grado di soddisfare la nostra sete più profonda, la sete di infinito (Giovanni 4,3-15). Di tutti i paragoni, quello del vangelo odierno (Giovanni 15,1-8) è forse il più immediato, il più evidente: in qualunque pianta da frutto, un ramo dà i suoi frutti sino a quando resta saldamente attaccato al tronco; se ne viene separato, inevitabilmente secca e perde la sua funzione. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano". Già in passato i profeti si erano avvalsi del paragone della vite, ma avevano sempre parlato di una vigna nella sua globalità, assunta a rappresentare il popolo di cui Dio si prende cura (si veda ad esempio Isaia 5,1-7). Gesù invece parla della singola pianta, la vite, e considera non il popolo ma i suoi singoli componenti; manifesta così che, pur se insieme noi formiamo una comunità, il rapporto con Dio rimane essenzialmente un fatto personale, individuale, e l'autentico rapporto con i nostri simili è solo quello che passa attraverso il tronco comune; altrimenti saremmo uniti tra noi non come lo sono su una pianta i rami verdeggianti carichi di buoni frutti, ma come rami recisi, uniti a formare una fascina: rami secchi, buoni soltanto ad alimentare il fuoco. Invece, "chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto". Nell'Eucaristia, con la comunione, il "rimane in me, e io in lui" prende addirittura evidenza fisica; ma perché questo dono incomparabile sia efficace dev'essere accompagnato da atteggiamenti coerenti, che guidino ogni passo della vita. Come il cristiano possa essere vitalmente unito al suo Signore, lo dice nella seconda lettura lo stesso Giovanni: "Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri". In altre parole, l'evangelista invita alla pratica delle tre virtù fondamentali, fede, speranza e carità. La fede è quella di chi intimamente riconosce il Signore Gesù come l'Uomo che è anche Dio, si fida di lui e perciò si impegna a vivere come lui insegna. La speranza è quella di chi vede in lui il senso e il valore della propria vita, presente e futura. La carità è quella di chi, consapevole di quanto egli ci ami, contraccambia tanto amore nel modo da lui stesso indicato, amando concretamente il prossimo. |