Omelia (03-05-2015)
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COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di don Paolo Ricciardi

Eccoci alla prima domenica di maggio..., la quinta di Pasqua: aria di primavera, tempo di prime comunioni, di battesimi, di matrimoni, di feste parrocchiali...
Anche se dentro noi ci sono pensieri, motivi di preoccupazioni, fatiche da fine anno, la Liturgia ci invita ad andare di nuovo al cuore del Vangelo per ricordarci da dove e da Chi veniamo. E per indicarci di nuovo una strada. E apre di nuovo i nostri sensi per respirare al ritmo della creazione e della natura, anche se viviamo in città sommerse da palazzi, dal traffico e dai rumori.
Ed ecco che, dopo la figura del buon pastore e delle pecore proposta dal vangelo di domenica scorsa, in questa quinta domenica di Pasqua arriva un'altra immagine molto cara a Gesù: la vite e i tralci.
Tra gli alberi che conosciamo, la vite è sicuramente uno dei più originali: per la forma, per la sua composizione, per le foglie, e in particolare per i suoi frutti.
Sappiamo bene che a chi ama la tavola basta anche un acino di uva per desiderarne un altro, per andare all'intero grappolo e per pensare, almeno oggi, a cosa c'è dietro ad un bicchiere di buon vino.
Gesù lo sapeva bene, se ha scelto, con la "complicità" di sua madre, di iniziare i suoi segni trasformando 600 litri di acqua in altrettanti litri di vino, sintetizzando in pochi istanti - ed è questo il bello di quel miracolo - tutto il processo che parte da un seme, da una vite, dai tralci, per arrivare all'uva, alla vendemmia, al torchio, al vino, alle nostre tavole.
L'evento di Cana - quando ancora non era giunta "l'ora" - già ci parlava di una Vite rigogliosa, capace di portare subito la gioia nell'esistenza degli uomini. Ma è solo adesso, nel discorso dell'addio, nell' "Ora" ormai giunta, che Gesù ci parla di Vite, di quello che c'è all'inizio, e dei tralci uniti a Lui.
E, come una scena al rallentatore, uno "zoom" sulle nervature dei rami di un albero, come un documentario al microscopio che ci fa fermare tutti, ecco che vediamo da vicino quella misteriosa e splendida unità che rende un tutt'uno vite e tralci, com'è tutt'uno il Cristo ed i Cristiani. E che trasforma quella Vite rendendola a forma di croce, albero la cui linfa è già piena di Resurrezione.
Gesù in questa immagine è più che chiaro: c'è un Padre agricoltore, c'è un Figlio-Vite, e ci siamo noi-tralci. E c'è un verbo, ripetuto sette volte nel vangelo di oggi: rimanere. È lo stesso che troviamo alla fine della seconda lettura: "in questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato".
Forse però non sapete che si tratta dello stesso verbo usato all'inizio del vangelo di Giovanni, quando è descritto l'incontro pomeridiano - erano le quattro del pomeriggio - dei primi due discepoli, con la loro domanda: "Maestro, dove abiti?" cioè: "Dove rimani?". E con l'invito a seguirlo, a venire e vedere dove rimanesse. E quel giorno rimassero con lui.
E da quel giorno i discepoli cominciarono a capire dove Gesù rimanesse.Da quel giorno Gesù cominciò a far vedere ai suoi amici che la sua dimora aveva un nome preciso: il Padre. Perché tra Gesù e il Padre c'è una comunione profonda nello Spirito Santo, che rende le tre Persone un unico Dio.
Anche noi oggi siamo chiamati a entrare nel senso profondo di quel verbo "abitare, dimorare, rimanere"..., evitando il rischio di incomprensioni. Perché rimanere non significa: "Sto un po' e poi me ne vado", neanche "essere cristiani quando fa comodo, part time..." Non è neanche solo rimanere in parrocchia, visto che è spesso la domanda colma di amarezza di sacerdoti e catechisti in questo periodo: "Ma rimarranno questi bambini dopo la Comunione o questi ragazzi dopo la Cresima? Li vedremo domenica prossima?"
Rimanere ha un senso più profondo, più vero, più coinvolgente: significa far scorrere nella nostra vita la stessa linfa vitale di Cristo, significa respirare al ritmo del suo respiro, significa fare frutto con Lui, perché senza di Lui non possiamo fare nulla. Nulla! Non dice: "possiamo fare poco"... Non possiamo fare niente!
Non illudiamoci: una fede che sia fatta solo di formule, di gesti, di riti, è pura sterilità. È legna secca, sterpaglia che basta un po' di vento a strappare e a disperdere.
La fecondità che porta molto frutto c'è soltanto se Cristo è Vita della nostra vita.
Dimorare in Cristo significa lasciare che l'amore che viene dal Padre attraverso il figlio Gesù sia come un'onda vitale dentro la nostra esistenza, è avvertire con stupore che noi siamo mente, cuore, sensi, sangue in cui scorre la vita che può rigenerare tutte le nostre speranze.
Per chi dimora in lui nasce allora un senso gioioso in tutto: è la gioia di sentire che tutto è dono di Dio e tutto trova senso nel suo amore.
E nasce la bellezza di essere Chiesa, non più separati l'uno dall'altro, ma ciascuno in rapporto con i fratelli perché si vive dello stesso amore.
E' l'esperienza che fa Saulo quando dopo l'esperienza travolgente della via di Damasco entra, non senza fatica, nella comunità cristiana. I discepoli di Gerusalemme dapprima lo temono e lo tengono lontano, poi lo proteggono e lo difendono.
Che cosa era cambiato? Avevano capito che la stessa vita di Cristo era in lui e che ormai il passato non contava più; contava la realtà nuova, la loro comune assimilazione a Dio.
Questo è il "portare frutto" secondo il vangelo: "Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto".
Il frutto consiste nel mostrare che l'amore non è fatto con la lingua e le parole, ma coi fatti e nella verità.
Ma c'è un ultima cosa che va notata, nel vangelo di oggi. Se è vero che il tralcio secco si butta e si brucia, si dice anche che il tralcio che porta frutto si pota. E la potatura - lo sappiamo - è sempre una ferita.
Perché amare è un rischio: comporta ferite. Amare vuol dire diventare vulnerabili nei confronti di quelli che si amano.
È stata necessaria la croce perché il frutto della vite apparisse il mattino di Pasqua.
È stato il sangue versato a darci il vino dell'amore. Se c'è ancora amore nel mondo, nella Chiesa, nelle famiglie; se c'è ancora gioia, è perché ci sono tanti tralci che accettano di essere potati per portare più frutto. Non è una sofferenza sterile, ma feconda.
Perché l'amore, il vero amore, è sempre generatore di vita.