Omelia (03-05-2015)
don Luciano Cantini
Nelle mani dell'Agricoltore

Io sono la vite vera
Nel Vangelo di Giovanni, l'espressione che per eccellenza identifica Gesù col Padre, io sono, richiamando la teofania a Mosè (Es 3,14), la ritroviamo più volte come rivelazione assoluta (8,24; 8,28; 8,58; 13,19; 18,5): Gesù e il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sono una cosa sola (Gv 10,30).
Invece sono sette (e sette non è un numero casuale perché indica la pienezza) le immagini che Gesù accosta all'espressione io sono rivelando una particolare dimensione di se stesso: il pane della vita (6,35), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7), il buon pastore (10,11), la risurrezione e la vita (11,15), la via, la verità e la vita (14,6), la vite vera (15,1).
L'esempio parabolico della vera vite appartiene ai «discorsi di addio» che Gesù pronuncia al termine della Cena in cui lava i piedi ai discepoli. Tra i due testi c'è un certo parallelismo: mentre Gesù lava i piedi, il vignaiolo purifica (pota) i tralci; nelle due situazioni Gesù afferma «voi siete puri», orientamento dell'azione del Cristo è quella della glorificazione del Padre; i discepoli sono chiamati a fare come lui ha fatto, a rimanere in lui; così da portare molto frutto, avere amore gli uni per gli altri; i due brani si illuminano a vicenda.
Giovanni riprende l'immagine della vite ben conosciuta dagli Ebrei, diversi passi dell'Antico Testamento presentano infatti Israele come la vigna di Dio ( Cfr Is 5,1-5; Sal 80, Ez 19,10); nell'immagine usata, però, c'è uno spostamento innovativo: non è più Israele la vigna di Dio, ma il Figlio; non solo, si dice molto di più: la vigna è costituita da una sola vite e quella vite è Gesù stesso. Lui è la vera vite del Padre, è Lui il nuovo Israele. La vera vite è l'unica in grado di produrre finalmente i frutti attesi, che l'Agricoltore cercava in Israele, Lui solo può manifestare pienamente la gloria di Dio.

Io sono la vite, voi i tralci
Come il vero Pastore raccoglie da tutti i recinti le sue pecore in un unico gregge e dà la vita per loro (Gv 10,16), così la vera vite dà la vita ai tralci che in lei nascono e crescono. Vite e tralci sono intimamente legati, in Cristo si intersecano e si intrecciano il dono di Dio e le risposte dell'uomo, così da giungere al compimento nella abbondanza del frutto. I tralci non hanno vita in sé, devono rimanere attaccati alla vite per nutrirsi e crescere: la vita dei tralci è nella vite. Gesù sottolinea che il tralcio è in lui, invita e richiama pressantemente i discepoli a rimanere in Lui, anzi a dimorare.
Il verbo dimorare/rimanere è caratteristico del quarto vangelo (ben 36 volte, in questo capitolo ben 11 volte) ed è garanzia di piena comunione. Così il legame dei credenti con il Figlio, la reciproca inabitazione, è la condizione per portare frutto e glorificare il Padre, ma il dimorare in Gesù non è completo ed efficace se anche le sue parole non dimorano in ciascuno. La forza della Parola che abita il credente, nella pienezza della comunione, conduce a desiderare, chiedere e fare ciò che lo stesso Gesù desidera.
Per vivere una vita autenticamente cristiana, non basta seguire Gesù o imitare il Cristo, abbiamo bisogno di lui: senza di me non potete far nulla. Non serve sentire Gesù al nostro fianco magari per chiedere aiuto dove noi non arriviamo da soli, ma essere sufficientemente liberi - o meglio lasciarsi liberare - perché Cristo operi in noi per qualsiasi cosa e in ogni momento.

Perché porti più frutto
Nel quarto vangelo le parole vengono pesate, la loro ripetizione indica l'importanza che l'evangelista attribuisce al concetto espresso; per ben sette volte ripete l'espressione portare frutto (tre volte in 15,2 e poi 4.5.8.16). I discepoli sono nel Cristo, non per una sorta di relazione intimistica autogratificante, ma per portare molto frutto. La relazione col Signore, la Comunione con lui, il ricevere la sua linfa, nutrirsi di Lui (Cfr Gv 6,56-57) è funzionale alla crescita, ad una missione da compiere.
Il tralcio che, pur unito a Gesù-vite, non trasforma la linfa vitale che riceve in frutto è inutile e il Padre lo elimina. C'è da domandarsi quale sia il frutto al tanto impegno che a volte mettiamo nelle devozioni, nelle pratiche religiose, nella comunione eucaristica se siamo incapaci di spezzare il pane con gli altri, di amore reciproco, di misericordia. La qualità e la quantità di frutto dipendono dalla linfa' che il tralcio riceve e trasforma, non dal tralcio stesso che è strumento.
Il Padre-Agricoltore non si accontenta di un frutto qualsiasi, cerca molto frutto per questo cura la vite tagliando i rami inutili e potando gli altri. L'evangelista usa un gioco di parole: togliere (greco: aírei) e purificare (greco: kathàirei), la potatura della nostra traduzione è un atto di purificazione, di liberazione da quanto impedisce un maggiore frutto. Se è la vite che dona la vita al tralcio, è l'Agricoltore che favorisce la vitalità del tralcio e la sua capacità di dono. Bisogna lasciarsi fare dal Padre, non è nostro compito cercare la perfezione di noi stessi o sforzarsi in sublimi percorsi dell'anima, la nostra preoccupazione dovrebbe essere solo quella di abbandonarsi nelle mani del Padre e rendere feconda la nostra capacità di amare.
La vite non porta frutto da se stessa, ma solo attraverso noi tralci se rimangono nel tronco e si allontanano da esso, strisciano sulla terra, si arrampicano, cercano appigli, percorrono le strade della storia, si sporcano le mani, diventano un dono d'amore capace di generare.